Storia di un assassino che ho conosciuto

Una riflessione sul caso di Emanuele De Maria, il duplice femminicida che si è suicidato gettandosi dal Duomo di Milano
Giacomo Spinelli , IL MANIFESTO, 14 maggio 2025

Emanuele De Maria era un amico, una persona complessa, indecifrabile, con un passato torbido ed un
futuro ancora da scrivere. Amava la letteratura russa, più di tutti Dostoevskij di cui ammirava il modo in
cui lo scrittore descriveva i caratteri psicologici dei suoi personaggi. Amava Delitto e Castigo più di ogni
altro libro, poi Gogol, Turgenev e Tolstoj. In questa immensa tragedia c’è un particolare, un’immagine,
che continua a tormentarmi: quando Emanuele si è lanciato nel vuoto dalle guglie del duomo le scarpe
gli sono volate via. Lui, che era sempre così preciso e meticoloso, si era buttato con le scarpe slacciate.

Dostoevskij

Chissà da quanto tempo le aveva slacciate senza che se ne potesse accorgere, senza capire niente, mentre vagava per Milano come uno zombie, con quei suoi occhi grandi e marroni, intensi, sempre vivi e
curiosi, sul cui fondo scintillava sempre una vena di follia. Proprio come i suoi eroi dostoevskiani, Emanuele aveva perso la testa. Il mio amico era psicotico, ma lo nascondeva bene agli occhi di tutti.
Solo una volta l’ho visto fuori di sé, quando un compagno di carcere voleva fare una prepotenza ad un altro ragazzo, Emanuele si era messo in mezzo per difendere il nuovo giunto. Non sopportava i soprusi, nè il razzismo, “ bisogna proteggere i più deboli” diceva sempre.
Emanuele aveva bisogno d’aiuto, ma nessuno di noi lo sapeva perché non aveva mai esplicitamente mostrato il proposito di cedere e di aprirsi ad un dialogo doloroso con sé stesso. La logica criminale con cui era cresciuto non prevedeva ripensamenti né sentimentalismi. Quando mi raccontava delle sue origini napoletane, l’emigrazione, il minorile in Olanda, le rapine, i momenti di spensieratezza di quando era bambino, poi la violenza, la legione straniera e l’omicidio di una donna nel casertano, tragico epilogo
di una giovinezza perduta; sembrava tutto troppo, per un ragazzo che aveva solo 35 anni.
Eravamo insieme quando gli è arrivata la notizia che in Olanda il padre era morto. E noi eravamo lì,
chiusi tra quattro mura, lontani e dentro il cuore del dolore. Emanuele mi aveva raccontato che
l’illuminazione l’aveva avuta quando era in carcere a Secondigliano, dopo la condanna per omicidio,
diceva: “sono stato graziato, ho capito che dio mi stava dando una seconda possibilità”. Tutto il passato
sembrava una altra vita, lontana dal nuovo Emanuele. Si era messo a studiare per uscire dal carcere
migliore di come era entrato, per poter tornare dalla bambina che lo aspettava. L’aveva fatto da solo
questo processo, secondo quello che per lui era il modo giusto di farlo. Aveva sotterrato le braci sotto la
cenere, una nuova luce animava la vita di Emanuele ma l’oscurità non era stata sconfitta, era lì, pronta a
tornare.
Emanuele stava provando a cambiare vita, dopo anni di malavita ed un omicidio aveva intrapreso un
percorso di cambiamento tutto in salita, che stava però percorrendo a grandi falcate. Il carcere di Bollate,
gli educatori e lo staff penitenziario avevano puntato a un reinserimento sociale che ormai sembrava
cosa fatta. Nell’albergo dove lavorava parlava cinque lingue fluentemente e sapeva sempre quello che i
clienti volevano. Ma la vena di follia è tornata a pulsare e nessuno ha potuto fare più niente, aveva tenuto
tutto dentro, qualcuno aveva provato a dirgli che quell’amore era patologico ed era meglio che lasciava
perdere, che cercasse una donna della sua età perché la situazione in Hotel era troppo torbida e
Chamila era sposata.
Ma in carcere è difficile parlare con qualcuno; se entri con mezzo problema ne esci con tre: il trauma è
parte integrante del percorso. Il ventesimo rapporto sulle condizioni di detenzione di Antigone ci parla di
carceri-manicomi, dove il 12% del totale delle persone detenute ha una diagnosi psichiatrica grave. Il
rimedio a tale male sono gli psicofarmaci, “la terapia” che ti annichilisce talmente tanto che non capisci
più neanche dove sei esattamente, come biasimare chi decide di tenersi il malessere piuttosto che
essere narcotizzato.
Quando vieni catapultato in un mondo dove vince sempre e solo chi è più forte, dove la sessualità è un
tabù e il tempo una nebbia che non si dirada mai, capisci che l’istituzione carceraria crea gente
disadattata che non sa più come fare i conti con un mondo che corre troppo veloce, ne sa più fare i conti
con le proprie emozioni o le proprie sensibilità ormai sepolte sotto il cemento. Il carcere di Bollate per Emanuele ha fatto tantissimo, forse di più non poteva fare. Adesso è facile dire che Emanuele non
doveva andare in permesso a lavorare.
La verità è che bisogna fare di più, non di meno, creare più normalità e curare; non chiudere e voltare la
testa dall’altra parte. Emanuele andava verso il traguardo, poi qualcosa si è inceppato, qualcosa è
andato storto, nessuno di noi è del tutto innocente per quello che è successo e sarebbe ora di capire che
la salute mentale viene prima di ogni cosa, al primo posto, sopra ogni cosa, prima che altri uomini ed
altre donne vengano uccise, o si uccidono da soli.
L’uccisione di Arachchilage Dona Chamila, vittima innocente della follia umana, a colpi di fendenti è una
tragedia immensa. E non è la prima donna che Emanuele ha ucciso e nessun omicidio è giustificabile.
Ma anche Emanuele è vittima di sé stesso e dal Duomo di Milano ha voluto mostrare a tutti la sua fine. Il
fatto che la relazione del carcere avesse diagnosticato “un ragazzo totalmente equilibrato” significa solo
una cosa: quando una persona è chiusa in una cella per sette anni l’equilibrio è una scommessa che
nessuno è in grado di pronosticare. Non sono gli anni di carcere, da soli, a rendere equilibrati, altrimenti
bisognerebbe farne sempre di più e più carcere non è mail la soluzione. Servono servizi psichiatrici
efficienti e raramente ci sono. E poi la rieducazione passa necessariamente per il reinserimento. Non c’è
altra strada, per quanto dolorosi e tragici possano essere i fallimenti e per quanta pietà noi tutti si possa
provare per le vittime di questa storia, compreso l’assassino che era mio amico.

Autore dell'articolo: feniceadmin