Alcuni detenuti raccontano come è stato il primo giorno in carcere.

Sul Corriere della sera del 5 giugno la seconda puntata della serie «Voci dal carcere» di Alessandro Trocino. Il video di Christian Franz Tragni è su CorriereTv

Con il tempo, il mondo di fuori diventa un ricordo impreciso, annebbiato. La vista si accorcia, mutilata da una parete nuda a due metri, una porta con blindo e un pezzo di cielo senza sole incorniciato da una grata. L’udito diventa prima ipersensibile, torturato da rumori metallici e porte blindate che sbattono, poi affetto da una sordità difensiva, mentre il silenzio diventa un ricordo lontano. L’odore di candeggina e di muffa si mischia con quello del cibo, cucinato a un metro dal cesso, e invade il corpo e il cervello. Le malattie psicologiche e fisiche verranno dopo. Ma cosa succede quando un uomo o una donna varcano per la prima volta la cella di una prigione? Cosa succede a quelli che, con linguaggio burocratico asettico, vengono chiamati i «nuovi giunti»? Lo raccontiamo attraverso la storia di Maria Poggio, già avvocato penalista, finita nella sezione femminile del Bassone, il carcere di Como, uno dei peggiori d’Italia.

L’arresto al ricamificio


«Facevo l’avvocato. A un certo punto, è successa una cosa talmente grossa nella mia vita che nel lavoro mi sono affidata a terze persone e ho rifiutato di controllare quello che stava succedendo. Sono stata condannata a 3 anni e 10 mesi. È andata così. L’ordine di esecuzione è sospeso, per pene inferiori a 4 anni. Non ero in carcere, dunque, perché mi mancavano due mesi alla soglia. Per riprendermi, sono andata a fare l’operaia in un ricamificio di Busto Arsizio. Un lavoro durissimo, ma mi faceva stare bene. Mi serviva fare lavori materiali. La testa mi scoppiava, volevo far lavorare le braccia. Un giorno mi chiama la titolare. Ci sono i carabinieri, dice. Sono due pattuglie, c’è anche una donna. La dobbiamo portare via, mi dicono, c’è un ordine di esecuzione. Va bene, dico. Non mi scompongo. Sono bianca di polvere, a causa della termogarza. Bruciavo capi sotto le presse. Chiedo se posso salutare i colleghi, mi dicono di no. Mi accompagnano a casa, dove c’è mia figlia, 21 anni, disperata. Li supplica di non portarmi via. Non se l’aspettava e neanche io. «Faccia una borsa con quattro cose da portar via, si dia una pulita». Mi lavo le mani. Chiedo di fare le doccia, perché sono sporca per il lavoro. Mi dicono che devono restare in bagno con me per controllare, allora dico di no. Prendo le quattro cose che mi mette mia figlia. Piange disperata».

Le impronte che si ribellano

«Mi portano a Varese, alla stazione dei carabinieri. Devono prendere le impronte digitali. Le mani sono molto sporche, per il lavoro, e non riescono a prenderle. Il sistema telematico a Roma di acquisizione delle impronte non funziona. Resto in caserma per oltre due ore. I militari sono gentilissimi, mi offrono il caffè. Non capisco. Chiedo: ma com’è possibile che due giorni fa ero qui per prendere una notifica, nessuno mi dice niente e dopo due giorni finisco in carcere? Salta fuori che era arrivato a sentenza un altro procedimento. Un altro anno, avevo superato la soglia dei quattro. Mi mettono in macchina».

In viaggio con le manette

«L’appuntata dice ai colleghi: è una signora, non mettiamole le manette. Ma un carabiniere si impunta. Dice che sono obbligati. I miei non sono reati violenti, non c’è nessun pericolo, ma me le mettono lo stesso. Resto in manette per tutto il viaggio. Me le toglieranno solo all’ingresso del carcere. Quando partiamo, mi dicono: andiamo al carcere di Monza. Ma io so che il femminile a Monza è chiuso da 5 anni. Ma siete sicuri, dico, il femminile di Monza mi risulta chiuso. Loro sono già in autostrada, chiamano, chiedono informazioni, gli dicono che in effetti quello è chiuso. Escono dal casello, si torna indietro. Si dirigono verso Como».

Al Bassone, si chiude la porta

«Arrivati al Bassone, verso le sei di sera, mi fanno scendere. Mi tolgono le manette, entriamo. L’addetta mi leva la catenina con il crocefisso e il braccialetto. Ho con me le foto dei miei figli, non vuole lasciarmele. Poi l’addetta telefona, parlano un po’. Vabbè, sono di carta, possiamo lasciargliele. C’è la perquisizione, terribile. Sono nuda come un verme. Mi rivesto, finisco in una cella di prima accoglienza, davanti al corpo di guardia. In pratica sei in isolamento, lo fanno sempre, perché temono qualche atto di autolesionismo e da lì è più facile controllarti. La porta si chiude. Sono dentro. Vedo un materasso conciatissimo, una coperta, un cuscino. C’è un televisore rotto. Di fianco alla branda, un cesso alla turca, con il lavandino. Non ci sono sanitari veri, è un carcere per uomini, come quasi tutti. Le donne devono farla nella turca, sospese in aria. È il 29 giugno e fa un caldo tremendo. Quell’anno era un’estate torrida fuori, figuriamoci dentro».

Il primo giorno

«Quando arrivo, ho un solo pensiero: mia figlia. Voglio farle sapere che sto bene, voglio rassicurarla in qualche modo. Nessuno mi parla, sono sola. Vedo passare una volontaria e la chiamo. Chiedo di poter telefonare ma non si può: serve il tesserino e bisogna fare la domandina. Anche per fare spesa devo aspettare. Le chiedo di chiamarla, di aiutarmi. Le chiedo un foglio e una matita. Scrivo poesie, voglio sfogarmi. Ho sete, ma nessuno mi dà l’acqua. Bevo dal rubinetto, anche se ho il dubbio che non sia potabile».

La doccia

«Quando arrivi dentro, all’inizio non capisci, non sai nulla, nessuno ti dice nulla. Voglio lavarmi, farmi una doccia, ma non so dove farla. Mi danno un pezzo di sapone, mi arrangio con il lavandino. Nei giorni successivi vengo a sapere che quelli del corpo di guardia si lamentano di me, dicono che non mi lavo. Ma io non lo so come funzionava. Non sapevo che sotto in sezione ci sono le docce e posso chiedere di andarci. Ho 62 anni e sono in una cella. Sono inebetita».

L’ora d’aria

«Chiedo timidamente se posso uscire per fare l’ora d’aria. Me lo concedono solo il terzo giorno. Tre giorni chiusa da sola nella cella, senza poter parlare con nessuno. Poi aprono la porta. Finisco in questo cortile, da sola. C’è un caldo cocente, sto male, non ho acqua, chiedo di poter rientrare ma mi dicono che non si può, devo finire l’ora. È un momento terribile. Sto malissimo. Non sapevo che sarei finita in questa specie di cubo di cemento senza niente, senza copertura, senza alberi. Sono sotto il sole a picco e non ce la faccio più».

In sezione

​«Dopo cinque giorni di isolamento, mi fanno entrare in sezione. Finisco in una cella con un’altra ragazza, molto carina. È lei a chiedere di stare con me. Ha visto che scrivevo, lei è una che canta canzoni rap. Parla con le agenti e finisco con lei. Sono fortunata, la mia è una cella a due. Ma ce n’erano altre con tre, con quattro e anche con cinque persone. Già in due stiamo strettissime. Stiamo su un letto a castello, c’è un mezzo tavolino e il bagno, sempre con la turca. Non so dove appoggiarmi, a 62 anni non è facile».

Le domandine

​«Dopo 5 o 6 giorni ricevo la tessera per telefonare. A quel punto posso fare la domandina. Servono documenti, però, devo produrre lo stato di famiglia, recuperare la carta d’identità. Le telefonate sono di 10 minuti alla settimana, ma il direttore autorizza qualche minuto in più. Si può fare anche qualche whatsapp video, ma in questo caso i minuti si accorciano. C’è molta burocrazia. Per ogni cosa si devono fare le domandine, che si perdono spesso e si devono rifare. Comincio a fare la scrivana: raccolgo la posta, le istanze. Per un’autentica di firma ci vogliono un sacco di giorni. C’era una ragazza di Venezia, che chiede un avvicinamento parentale. Non glielo danno, rimane al Bassone per mesi. La trasferiscono alla Giudecca quando le mancano solo due mesi al fine pena. Per le donne c’è poco. Tutte le carceri sono per uomini. In Lombardia, a parte San Vittore, c’è Como. E poi Bergamo e Brescia».

L’educatrice

«Il Bassone è una struttura pessima, fatiscente. Il tempo non ti passa mai. Faccio qualche corso, cucito, fotografia. Ma sono corsi gestiti male, non c’è organizzazione, qualcuno comincia, poi non va più. Chiedo se posso organizzare un corso di scrittura creativa, mi dicono di no. Non c’è neanche un educatore. Loro sono fondamentali: non solo perché aiutano i detenuti a organizzare attività, ma anche perché senza di loro non c’è speranza di uscire. Sono loro che fanno le relazioni per il magistrato di sorveglianza, che decide se concedere o meno le misure alternative. Siamo disperati, protestiamo, scriviamo al direttore. Alla fine ne vengono nominati quattro. Si presentano in due, uno si mette subito in malattia. Ne rimane una, che deve lavorare sia per il maschile sia per il femminile. Poverina, si dà da fare, ma noi donne siamo 56, gli uomini saranno 300. Gli psicologi sono pochissimi e cambiano in continuazione. L’unica continuità è con il medico. Vai, ti visita e ti dà il bicchierino. Psicofarmaci, sedativi. Vedo gente inebetita. Dormi, mangi, non sei più una persona. C’è gente che urla e bisogna farla stare zitta. Gente che beve il detersivo. Trovo una ragazza che si è appesa un cappio al collo e si è attaccata al termosifone. La salviamo noi. Si voleva uccidere, perché non le davano una risposta su quando sarebbe arrivata la pensione di invalidità. La stava aspettando da tanto. È senza soldi e senza nessuno, è disperata».

L’ultimo giorno

«Quel giorno sto lavorando. Mi do da fare per aiutare le altre, mi avevano dato questo registrone con le domandine. Sono passati 7 mesi, è un giorno come gli altri. Mi chiamano al corpo di guardia e mi dicono: guarda che esci, è arrivato il provvedimento. Avevo fatto istanza per l’affidamento in prova, ma non sapevo quando sarebbe arrivato. Mi schedano, mi fanno il dna, firmo le dimissioni. L’Uepe, l’ufficio di esecuzione penale esterna, controlla quello che fai o non fai, ma non è che ti trovano un lavoro. Io lo chiedo, ma non salta fuori niente. Poi mi riprendono al ricamificio, sono gentilissimi. Mi fanno una grande festa quando torno. Con l’affidamento non puoi uscire di casa prima delle 6 e non puoi tornare dopo le 11 di sera. Ma sono fortunata. Molti altri escono dal carcere, se escono, e c’è il vuoto».

​​Alessandro Trocino, giornalista del Corriere della Sera, da anni si occupa dei problemi delle carceri in Italia. Il suo ultimo libro «Morire di pena» è uscito due mesi fa.

Autore dell'articolo: feniceadmin