Riprendiamo un articolo di Alessandro Trocino dal Corriere della sera / CorriereTv del 12 giugno 2025
Chiusi i manicomi, in cella rimangono molte persone con gravi disagi psichici. Nella terza puntata della serie «Voci dal carcere» raccontiamo la salute mentale nei penitenziari italiani

C’è Damiano – e anzi, c’era, perché si è suicidato – che vedeva Satana e ingeriva sostanze caustiche perché si ricordava una preghiera che diceva: «Gesù, lavaci con il fuoco». C’era Mohammed Andrea, che aveva «il chiasso dentro» e lo ha messo a tacere. C’era Giacomo, che aveva un disturbo borderline di personalità e che si è infilato una lametta in gola a San Vittore. C’era Matteo, che aveva un disturbo bipolare e aveva minacciato il suicidio se lo avessero messo in isolamento, infatti lo hanno messo in isolamento e si è impiccato. E poi ci sono ancora migliaia di detenuti che hanno una qualche forma di disagio psichico e che stanno chiusi in cella. Che ne è di loro? Per capirlo basta guardare i dati dell’ultimo rapporto di Antigone: quattro detenuti su dieci fa uso di sedativi o ipnotici, due su dieci di stabilizzanti dell’umore, antipsicotici e antidepressivi. Le diagnosi psichiatriche gravi riguardano il 13,7 per cento dei detenuti.
Parlare di carcere significa parlare di tossicodipendenza e di disagio psichico, di abuso di psicofarmaci e sofferenza. Il quadro normativo è complesso. Proviamo a riassumerlo. La distinzione fondamentale è tra i cosiddetti «folli rei» e i «rei folli».
I primi – i «folli rei» – sono quelli che hanno commesso un crimine ma non sono considerati imputabili, perché incapaci di intendere o di volere o per vizio parziale di mente. Prima venivano mandati nei manicomi criminali, poi negli Opg, gli ospedali psichiatrici giudiziari, chiusi nel 2014 con la legge 81. Ora sono sottoposti alla misura di sicurezza della libertà vigilata, con percorsi di cura territoriali o comunitari. In via residuale, nei reali casi di pericolosità, finiscono nelle Rems, le Residenze per l’esecuzioni delle misure di sicurezza: ce ne sono 30, con 600 pazienti (100 dei quali a Castiglione delle Stiviere).
I secondi – i «rei folli» – sono persone che hanno commesso un crimine e che, una volta in carcere, si scopre che sono affetti da una patologia psichiatrica, preesistente e non diagnosticata oppure sopravvenuta o slatentizzata. Per loro – che sono tantissimi – ci sono due strade: restano in carcere, in sezioni speciali; oppure, attraverso la detenzione domiciliare (ottenuta grazie a una sentenza della Corte costituzione), possono andare in comunità o a casa, affidati al Dipartimento di salute mentale. La terza via, forse la più battuta, è quella che li lascia dove sono: in cella, a urlare e spaccare tutto, oppure sedati, ridotti a zombie da un abuso di psicofarmaci usati con funzione di controllo e di neutralizzazione.
Michele Miravalle, di Antigone, è preoccupato soprattutto dalla zona grigia: «Persone che non stanno così male da ottenere di uscire dal carcere, ma che hanno comunque un grave disagio psichico. Spesso finiscono nelle sezioni speciali, in isolamento, che sono i reparti peggiori, quelli più a rischio suicidio. Oppure stanno in cella con altri, e finiscono magari come il diciottenne del Marassi, che è stato torturato dai compagni per due giorni, approfittando della sua fragilità psichica. L’altra strategia è l’uso massiccio di psicofarmaci, che diventa contenzione psicologica e annienta le persone. Spesso c’è tensione tra gli agenti, che premono sui sanitari per prescrivere questi psicofarmaci senza reali motivi terapeutici ma solo a fini disciplinari, come anestetizzanti. I dati peggiori, su questo, sono negli istituti per i minori».
Antonella Calcaterra è una combattiva avvocata milanese, che si occupa da anni di questi temi: «Il sistema normativo, grazie anche agli interventi della Corte costituzionale, è piuttosto buono. Il problema è che mancano risorse. Si fanno le leggi, ma non ci si mettono i soldi. Per la salute mentale si spende in Italia il 3 per cento del budget sanitario, contro il 20-30 per cento di altri Paesi. Mancano le strutture territoriali, i servizi, il welfare, le reti di accoglienza».
E poi c’è il caso delle doppie diagnosi. Si tratta di persone che hanno problemi psichiatrici e contemporaneamente una qualche forma di dipendenza. Sono moltissime e per loro i problemi aumentano: «C’è un ragazzino di 20 anni a San Vittore, in carcere per un reato modesto, che ha un disturbo borderline severo ed è tossicodipendente. Per un mese ci siamo scambiati mail a ripetizioni con San Vittore, il centro di salute mentale e le altre strutture. Ognuno diceva che non competeva a lui, ma agli altri. Alla fine grazie alla Casa della Carità, benemerita, è riuscito a uscire. Ma si è fatto un mese di carcere che non doveva fare e adesso, dopo sei mesi, ancora non c’è un progetto terapeutico vero. La verità è che viviamo di volontariato, di terzo settore, di associazioni sconosciute e che fanno quello che dovrebbe fare lo Stato».
Anna Viola, educatrice di San Vittore, ribalta il punto di vista: «La situazione in carcere è drammatica, ma fuori anche. Penso ad Eric, del Ghana. Sentiva le voci, il jinn, come lo chiamano loro, un’entità soprannaturale maligna che li spinge a fare del male. Faceva una terapia antipsicotica, con una puntura al mese, che lo faceva stare meglio. Lo hanno scarcerato, è stato preso in carico dal servizio di etnopsichiatria. Ma gli sono scaduti i documenti e gli hanno tolto la terapia. Era in dormitorio e lo hanno cacciato perché non aveva più il permesso di soggiorno. Gli è tornato il Jinn. È finita che ha spaccato tutto e ha detto: «Portatemi in carcere che almeno mi spegne le voci».
Anna ha visto di tutto in cella: «Gente che parlava con i pappagalli, persone che erano lì perché spaccavano solo le macchine di un certo colore. Uno che è entrato e ha distrutto quattro celle in un’ora. Ragazzi che si tagliano o si sballano con la bomboletta del gas. Certi agenti li ammiro, non capisco come facciano a sopportare, se ne rimangono lì per ore mentre gli tirano feci, gli urlano di tutto, li insultano. Uno diceva di essere il figlio di Berlusconi: secondo lei, dovrei stare in cella?». Lei prova ad aiutarli: «Ma sono da sola, sono l’unica educatrice, e sono anche in attesa del contratto. Ci parlo, ci gioco a carte, a un due tre stella, mi diverto anche. A uno gli ho detto: ma perché non ti leggi un libro della biblioteca. È tornato e mi fa: com’è questo? Era il Vangelo. Gli ho detto: bello, il protagonista muore, ma c’è un finale scoppiettante, leggilo». Una volta le persone con disagio psichico avevano diritto a stare fuori dalle celle due ore supplementari: «Poi è arrivata una circolare, e tutti dentro. Non era di questo governo. Ma se ora in via Arenula scoprono che hanno diritto ancora a due ore d’aria, si preoccupano: non sarà un’overdose di ossigeno?».
Anche Miravalle, come Calcaterra, è convinto che non ci sia bisogno di interventi legislativi: «Vedo però un’applicazione molto timida e conservativa delle misure da parte dei magistrati di sorveglianza. C’è una regressione culturale, sia i magistrati sia gli operatori sono più orientati al controllo che alla cura. Sono i germogli di una controriforma. Hanno ucciso Franco Basaglia. Servirebbe più dialogo con i servizi territoriali sanitari. Mancano strutture specializzate e il sistema delle comunità è al collasso. Tra l’altro, queste ultime sono al 99 per cento dei privati. Che quindi possono decidere chi accogliere e fino a quando. Servirebbe un intervento dello Stato».
In questi giorni è citatissima Goliarda Sapienza, grazie al film di Mario Martone «Fuori». La citazione migliore, per noi, è questa: «Il carcere è sempre stato e sempre sarà la febbre che rivela la malattia del corpo sociale». Fa il paio con quella di Franca Ongaro Basaglia, che suona particolarmente rivoluzionaria in tempi di criminalizzazione della resistenza passiva. Scriveva: «Cosa ha annientato il malato? L’autorità. Per riabilitarlo occorre abituarlo a ribellarsi. Dato però che il nostro sistema sociale non è interessato alla riabilitazione del malato mentale, in quanto non ha lavoro neanche per i sani, bisogna riformare anche la società».
Alessandro Trocino, giornalista del Corriere della Sera, da anni si occupa dei problemi delle carceri in Italia. Il suo ultimo libro «Morire di pena» è uscito due mesi fa.