Legge n.354/1975: “perché la pena risulti rispettosa dei principi di umanità , la pena deve assumere una valenza rieducativa accompagnando i detenuti verso la libertà, evitando e contrastando gli effetti de socializzanti del carcere che logora le menti e le personalità delle persone detenute (…..) “
Non solo la nostra costituzione ha assegnato grande rilevanza alle relazioni familiari, considerando quest’ultima come tra le più importanti risorse nel percorso di reinserimento sociale del reo , ma anche il nostro ordinamento ritiene che i rapporti con la famiglia sia uno degli elementi essenziali per il recupero di un soggetto. (ved. Art.28 ord.pen. )
In realtà nonostante il nostro ordinamento continui ad essere tra i migliori del mondo, di fatto è anche quello più disatteso e inapplicato.
Eppure non sembra che tutti i codici penali siano interpretati con sfiducia dalle istituzioni: quando la pena deve condannarci le istituzioni ci chiedono di rispettarlo perchè è l’unico strumento che indica a noi tutti in che direzione bisogna andare, e di farlo anche quando le pene che ci vengono inflitte ci possono apparire sproporzionate rispetto alla gravità dei fatti per cui si viene condannati.
E’ paradossale però, che le contraddizioni appiano ogni qual volta la pena deve tendere alla tutela e al recupero e la difesa del condannato.
E’ paradossale anche rispetto al percorso rieducativo della pena , altrimenti come requisiti ci sarebbero dei percorsi e delle iniziative a tutela dei figli e dei familiari, mentre invece quel poco di attenzione che si trova nei confronti di quest’ultimi è dovuto dalla sensibilità di qualche volontario di turno. Nulla viene preposto dalle istituzioni come finalità di cambiamento e rispetto di queste norme vigenti, tranne forse quelle poche isole felici di Istituti che si contano su un palmo di una mano, nonostante gli Istituti di pena in Italia siano oltre 200.
I legami affettivi esistenti prima che di entrare in carcere, nelle condizioni attuali rischiano di logorarsi o addirittura spezzarsi durante la reclusione a causa della distanza sia fisica che mentale che divide il padre dai propri figli o il marito dalla propria moglie.
In questo modo si fa pagare alle famiglie (figli, mogli ….) una pena supplettiva dimenticandosi che sono a loro volta vittime che hanno come unica colpa amare il proprio congiunto.
Si rischia, come rivelano le statistiche, che nel tempo gli stessi congiunti, davanti al senso di impotenza e solitudine affettiva, inizino a maturare un senso di “ odio ” nei confronti delle istituzioni e della società tutta.
Non è un caso infatti che oltre 80% dei figli dei detenuti crescendo abbia a sua volta problemi con la giustizia.
Io credo che questa idea di pena nulla restituisce alla società, se non una voglia di rivalsa nei confronti di chi la subisce.
Questo tipo di concezione dell’essere umano è strumentale, proprio perché trattato come strumento di un sistema è non più come persona, per cui può essere escluso, allontanato, addirittura eliminato quando rompe il patto sociale, o infastidisce.
Sono passati oltre dodici lustri dal famoso discorso di Filippo Turati e Alcide De Gasperi (la grande promessa istituzionale ..) e quindi della successiva riforma del 1975, che metteva al centro di ogni percorso rieducativo la dignità dell’individuo, (se pur timidamente ..) partendo dalle relazioni con le proprie famiglie, eppure nonostante tanto si sia scritto da allora anche in materia di ordinamento ancor nulla viene applicato nei fatti.
Credo che un essere umano possa anche essere afflitto durante la pena, ma questo deve togliere lui solo la libertà. Ma se la libertà va a ledere anche la dignità dell’individuo e quella dei loro affetti allora non è giustizia, ma vendetta.
Luigi G.