Questo intervento viene pubblicato ora, ma è stato scritto alcui giorni fa, ben prima che il DAP (Dipartimento Amministrazione Penitenziaria) rimuovesse dai rispettivi incarichi il direttore (Domenico Minervini) e il comandante della polizia penitenziaria (Giovanni Battista Alberotanza) del carcere di Torino. Un provvedimento intervenuto dopo che la Procura di Torino ha chiuso le indagini sulle violenze, in alcuni casi torture, ai danni dei detenuti del carcere torinese. Minervini e Alberotanza figurano tra i 25 indagati nell’inchiesta del pm Francesco Pelosi.
La redazione di varieventuali
Sono solo, qui ad Ivrea, nella Casa Circondariale.
È l’anno duemilaeventi e sono recluso in questo Istituto che conta circa altri 350 reclusi come me. Per una sorta di coincidenza le carceri in Italia sono piene, voi credete alle coincidenze? lo no. Ci deve essere qualcosa nell’aria, e noi siamo responsabili anche di come la respiriamo quell’aria … può portare felicità e ad un lato opposto irascibilità, e poi se si esagera ci porta qui, in prigione. Dico che sono solo, perché se penso che sono con altri trecentocinquanta fratelli non sarei davvero sincero. Nel ventunesimo secolo le persone là fuori, nell’ingranaggio esterno, non si considerano tutti fratelli, non dovrei certo cominciare a considerare la cosa ora. Forse sì. Poi è meglio sentirsi soli. Non noti tante cose, tante sottigliezze che riguardano gli altri, che se ti vedono farlo potrebbero offendersi, e psicologicamente non fa bene. Ne noti molte altre in compenso, cose che ti aiutano a essere spensierato.
Alle Vallette dov’ero prima gli irascibili e irragionevoli erano la maggior parte degli assistenti con cui ho avuto a che fare, ovvero gli ufficiali della polizia penitenziaria. Sarà forse anche per il mio capo d’imputazione, il mio crimine. Là ho dovuto passare dalla settima sezione, la sezione denominata “dei pazzi”, quelli instabili, soprattutto psicologicamente. Ero video sorvegliato H24 e per due settimane non avevo che una coperta. Per un loro parametro, da me ancora incompreso, ogni nuovo arrivato ha una luce nella stanza, come quelle d’emergenza al neon accesa, in alta tensione, che nel giro di una settimana e mezza va regredendo la tensione e si spegne da sola. Devo dormire quindi con una luce accesa anche la notte e una coperta, luce che ti fa rischiare psicosi e alta pressione, per fortuna siamo solo ad aprile, anche se i termosifoni sono ancora accesi la temperatura è buona. Prima di poter avere delle lenzuola devo attendere che finiscano le prime due settimane, e così vale anche per la radio da me già acquistata. Per ogni sigaretta devo chiedere l’accendino al lavorante che passa, all’ufficiale di turno, a chiunque, anche agli infermieri.
Sono nella stanza centoquarantasette e a fianco a me c’è un egiziano, un po’ egiziano e un po’ romano, parla con accento romano, si sente. È più giovane di me, ha ventitre anni, io ventisette.
Lui, Musa, chiedeva tabacco tutto il giorno, a tutti, e tutti cercavamo di accontentarlo, qualche ufficiale pure.
Ma quando i buoni ufficiali non ci sono arrivano quelli poco etici, poco di buono. Entrano nella sua stanza, non mi piace chiamarle celle, e con guanti neri cominciano in quattro o cinque a menarlo.
Passano circa due giorni e finalmente Musa esce e riesco a vederlo, vedere chi è, com’è fatto. Sembra proprio un bravo ragazzo, uno di quelli con cui andrei volentieri ai Murazzi di Torino per passarci qualche serata. Ha tutte le braccia segnante dai tagli auto inflitti, lui sembra anche uno di quelli che fuori sono piacenti alle ragazze, un bonaccione, proprio uno di quelli a prima vista bamboccioni e simpaticoni, ci salutiamo, e lui va a farsi la doccia. Chiacchieravamo ogni tanto … la cosa che mi dispiaceva era vedergli quelle braccia rovinate, semi allungate da una chissà quale forma autolìcantropata.
Gli chiedo cosa gli è successo una sera. C’era un atmosfera di mistero mentre lui stava per parlare, si spiega subito, dice “io ho fatto Roma”.
“Io ho fatto Roma” ho capito in che senso. Mi spiega che ha fatto un po’ di cose tra cui una violenza su donna e bambina. Gli dico subito di chiudere con me. Di non parlarmi mai più.
lo non sono in quel genere di crimine. Anche se posso farmi schifo anche io, donne e bambini li amo più di me stesso. “Io ho fatto Roma” ho capito sì in che senso … sei stato demone, ovvero hai fatto ciò che nessuno farebbe agli altri. Capirà, spero, che come lui, prima di lui ce ne sono stati altri. E che l’Universo lo perdoni, se può.
lo mi faccio circa quattro mesi in quella sezione e ho preso botte dagli assistenti due volte. Una perché chiedevo troppe volte l’accendino, anche la sera e la notte. Ero turbato, molti altri in sezione hanno la tv e io no, e l’unico modo per sfogare un po’ era fumare, in mezzo alle sigarette mettevo anche i filamenti di banane seccati.
Erano in cinque o sei, e non riuscirono a lasciarmi segni o lividi, poi arrivò per caso l’ufficiale capo posto e gridò “… che fate? Basta!! E staccatevi!”. Mezz’ora dopo erano di nuovo come prima, loro; io provavo un senso di euforia mista a voglia di vendicarmi. Poi scese tutto, anche quella voglia di vendicarmi.
Una sera monta un ufficiale abbastanza giovane, deve fare la notte, e la faceva spesso la notte. Passa e mi dice “Tu per me dovresti essere già morto“, e io “Perché? Io le consiglio di non credere ai giornali e soprattutto di non portarsi i suoi pensieri di fuori qua dentro“. “Tu per me dovresti essere già morto, cesso.” E se ne va. Passano le giornate e per circa tre notti quel ragazzo passando davanti alla mia stanza grida “cesso”, e altri insulti di poco valore, allora io penso “forse sta scherzando, magari qui fanno così”. Così provo a rispondergli. “cesso sei tu, nvedi quanto sei brutto, chi te se pija?!” e dopo altre notti con altri insulti da parte sua io comincio a chiamarlo “faccia da topo”.
Un giorno entra in scena di giorno, non fa la notte. Qui mi dice “tanto ti devi fare la doccia”. Io passo indifferente.
Il giorno dopo devo farmi la doccia. All’uscita dalla doccia ci sono due ufficiali penitenziari (di cui uno è lui) e un lavorante. Mi dicono “per uscire ti dobbiamo ammanettare da dietro”. Io pensò che sarà la prassi. Non è la prassi. Appena mettono le manette mi buttano a mo’ di sacco di patate e cominciano a darmele, finché li convinco che potrebbero fare danni seri se resto legato in quel modo, così mi tirano su e mi buttano nell’’ultimo stanzino in fondo, adibito per lavatrice e frigo, e mi fanno sedere sulla lavatrice. Qualche schiaffetto, qualche offesa e mi fa tornare in stanza.
In quei quattro messi avevo fatto circa venticinque sedute psichiatriche e psicologiche. Io soffrivo di voci, esterne a me, e di instabilità fisica a livello di aura, cioè come quando dopo aver dormito le mie nove o otto ore mi svegliavo che fisicamente era come se non avessi riposato.
Poi venni trasferito dal blocco A al blocco C, dimesso finalmente da quella sezione, dove, pensandoci, posso dire di aver conosciuto persone davvero divertenti, buone e generose, anche tra gli agenti.
Il blocco C sezione decima, mura da ripitturare, un vecchio trascorso di colori blu e grigio fanno la scena. Io sono all’ultima stanza, di fronte alle docce. Soffrivo un po’ di omofobia, perdonate ma ero sensibilmente suscettibile in quel periodo. Ma ancora per poco.
Gli assistenti mi prendono in giro e tentano pure di farmi una trappola per menarmi di nuovo, senza che io avessi detto niente, e rapporti ancora non ne avevo presi. Ma li avviso subito che il mio avvocato è pronto per difendermi nel caso alzino le mani, così i due agenti accompagnatori fingono nello stanzino una seconda perquisizione e mi accompagnano in stanza dicendo ai ragazzi detenuti “questo è un pezzo di merda! Non ci parlate!”. Capito giusto nell’ora di socializzazione e cerco subito di vedere chi c’è, per conoscere qualcuno. Nel blocco A con gli altri, anche all’area, andavo d’accordo. Qui no. Nessuno vuole parlarmi. Il giorno dopo all’area tentano di braccarmi in sette o otto, io tiro un calcio per allontanare il primo, si spostano tutti con lui, quindi riesco ad andare diretto dall’agente fuori dalle grate per farmi risalire in stanza. Mi chiede cosa è successo e gli faccio capire che se fossi rimasto lì sarebbe successo casino, e non faccio nomi. Dopo circa una settimana riesco a fare qualche conoscenza e a stabilire la tranquillità, qualcuno veniva pure a chiedermi scusa e cercavano di prevenire, parlandomene, il caso se avessi voluto vendicarmi, ma io glielo dissi bene che non occorreva, a me bastava che stessimo tranquilli tra noi.
Al sesto mese delle Vallette con accordo dell’ispettore riuscii a farmi trasferire ad Ivrea. Gli Agenti sono molto più buoni e tranquilli. Sono in una sezione semi protetta, di persone che, come me, sono state avvisate subito dall’ispettore sul fatto che rispetto alle sezioni comuni questa è per persone che assolutamente non vogliono discutere tra loro. Bene così. Ho il mio tempo e il mio spazio per crescere e riflettere.
Cosa ho fatto io per finire dentro?
Io mi sono costituito alle forze dell’ordine a inizio aprile duemilaediciannove per l’omicidio avvenuto ai Murazzi il ventitre febbraio dello stesso anno. Mi sono costituito perché sicuro che l’avrei rifatto.
Prima di me si erano costituite altre due persone per il reato. Uno dopo una settimana è stato ritenuto mitomane e rilasciato, l’altro, anche lui, rilasciato dopo il non rinvenimento di prove. Non erano con me. Io gli diedi l’arma del delitto.
Said M.
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