Qualche settimana fa, in aula,
è successo, come sempre, qualcosa di costruttivo,
malinconico e triste nel contempo:
la professoressa di italiano e storia, durante la lezione,
mentre ci raccontava la differenza
tra la scuola italiana e quella francese,
ci ha parlato di quando insegnava in una scuola a Parigi,
in una classe di alunni con delle problematiche,
ed in particolare, di una ragazzina.
Marì, questo il suo nome:
nonostante la sua giovanissima età,
già fin da piccola, la vita le fu avversa.
Nell’ascoltare la voce della docente,
ad un tratto, come d’incanto,
mentalmente con la mia immaginazione,
mi sono sentito, da quelle sue parole,
letteralmente trasportato, proiettato nel tempo.
In un tempo passato,
come se stessi viaggiando insieme al racconto
che la maestra narrava;
e come per magia,
ho visto la mia sagoma
sulla porta di quell’aula di Parigi che,
guardavo tra i banchi di scuola,
cercavo di visualizzare il volto di Marì, per dirle:
“non sei sola”;
ma non l’ho vista, perché non la conoscevo.
Avrei voluto abbracciarla con tenerezza immensa,
donandole un dolce e sincero sorriso
e piangere insieme a lei: per lei.
Ma poi, bruscamente,
quel breve racconto si è interrotto:
dovevamo riprendere la lezione e,
come destato da un sogno,
sono ritornato in Italia, in aula,
fra sbarre e cemento.
Ho, tuttavia, portato con me,
dentro il mio cuore, due “souvenir”:
la solitudine, e la tristezza di lei,
di quella triste ragazzina fiera e ribelle.
Io, da questo inferno, null’altro posso fare,
se non affidare al vento caldo della primavera,
simbolo di rinascita,
questo messaggio per lei:
“ti voglio bene, non sei sola” …
Ciao, Marì.
L’istituzionalizzato