Medio Oriente. “Io, palestinese torturato in carcere senza pietà”

di Francesca Mannocchi | La Stampa, 8 ottobre 2025

L’inferno nella prigione di Ramon: “Mi hanno bastonato e fracassato la testa”. Nella prigione di Ofer c’è un’ala chiamata sezione 23, la sezione per i prigionieri di Gaza. Ammar Jawabra era nella sezione accanto, la 24. Di notte Ammar poteva sentire le urla dei detenuti; poi quando le urla cessavano, le guardie carcerarie cominciavano a bussare a ogni porta. Avevano dato un nome a tutte le stanze. Gridavano: la stanza dei cani deve abbaiare, e i detenuti abbaiavano; poi era la volta della stanza degli asini, e i detenuti ragliavano. Di quelle notti Ammar ricorda il rumore del ferro che sbatte sulle porte, indice che stavano per iniziare gli abusi, ricorda l’umiliazione, ricorda l’impotenza. E, di quella prigione, ricorda la nudità. Le notti in cui le guardie carcerarie entravano, chiedevano ai detenuti di togliersi maglietta e pantaloni, e iniziavano le perquisizioni fisiche e le percosse ripetute sulla schiena, di fronte a tutti, nudi.

Ofer è una delle cinque prigioni in cui Ammar ha trascorso 8 dei suoi 42 anni. Molti dei quali in detenzione amministrativa, per ragioni di sicurezza non argomentate e non provate, altri perché ritenuto colpevole di incitamento all’odio. Organizzava incontri per parlare dell’occupazione e dei diritti dei palestinesi. Delle condizioni nelle carceri e dei diritti dei detenuti. Il 7 ottobre di due anni fa Ammar era già in prigione da sei mesi. Era nel Sud di Israele, nella prigione di Raman. I detenuti si sono resi conto di cosa fosse accaduto fuori da come sono cambiate le cose, rapidamente, all’interno delle celle. Nei giorni immediatamente successivi al massacro del 7 ottobre, ai detenuti palestinesi è stata tagliata l’acqua, l’elettricità, ridotte le razioni di cibo “entravano di notte a perquisirci, spesso con i cani per farci sentire addosso i morsi dei cani e poi spruzzavano gas nelle celle all’improvviso. Quando è arrivato l’inverno, ci hanno tolto l’acqua calda e le coperte”.

Una notte i soldati sono entrati nella sua cella e lo hanno trascinato in un’altra stanza, quella degli interrogatori. “Cane, come ti chiami?”, hanno iniziato così, poi lo hanno bastonato sulle gambe così forte che si vedeva la carne viva. Nelle settimane e nei mesi successivi, non ha ricevuto medicine, ha chiesto antibiotici, antidolorifici, ma niente. Quando alza i pantaloni, le cicatrici ancora visibili. Sul tavolo davanti a lui ci sono due buste di medicine. Per i danni alla schiena, alle gambe, e agli occhi. “Mi hanno fracassato la testa, non ci vedo quasi più dall’occhio sinistro”. Lacrima spesso Ammar Jawabra, difficile distinguere se per le conseguenze degli abusi che ha subito in prigione o per il trauma che ha portato con sé dopo che è uscito, una settimana fa. In prigione ha perso trenta chili, lo dice mentre mostra le fotografie che lo ritraggono prima dell’arresto e poi si alza la maglietta e mostra le costole. Un corpo che porta i segni della fame e della paura.

Una notte, lo scorso giugno, le unità speciali sono entrate nella sua cella e hanno iniziato a picchiare selvaggiamente tutti i detenuti. Schiacciavano loro gambe e braccia tra le sbarre di ferro delle grate, poi li hanno buttati a terra e presi a calci, hanno ordinato loro di sdraiarsi a pancia in giù, li hanno legati e li hanno lasciati lì, stesi, seminudi, i corpi lividi. Quando uno dei detenuti più giovani ha chiesto aiuto, un soldato ha risposto: “Puoi anche morire, fai come ti pare”. Ad agosto del 2024, meno di un anno dopo il 7 ottobre, B’Tselem, l’organizzazione israeliana per i diritti umani che da decenni documenta la realtà dell’occupazione, ha pubblicato un rapporto dal titolo “Welcome to Hell”, Benvenuto all’inferno, la frase con cui una guardia carceraria ha accolto Fouad Hassan, un detenuto palestinese di 45 anni nel carcere di Megiddo. La storia che apre la lunga analisi di Btselem.

Il rapporto traccia il ritratto di un sistema carcerario trasformato in un meccanismo di tortura diffusa. Secondo B’Tselem, dopo il 7 ottobre 2023, le prigioni israeliane si sono riempite fino all’orlo. Migliaia di palestinesi – dalla Cisgiordania, da Gaza e da Gerusalemme Est – sono stati arrestati, spesso senza accuse formali né processo, il numero dei detenuti palestinesi è quasi raddoppiato, passando da poco più di 5.000 a quasi 10.000. Le strutture penitenziarie, già note per le condizioni dure, si sono trasformate in luoghi di sopruso sistematico, dove la violenza fisica e psicologica è diventata routine quotidiana. Non eccessi individuali di violenza, non episodi da condannare, ma una politica consapevole sostenuta dall’attuale ministro della Sicurezza nazionale Itamar Ben Gvir – lo stesso che ha detto “Penso che i partecipanti alla Flotilla debbano essere tenuti per alcuni mesi in una prigione israeliana, in modo che si abituino all’odore dell’ala terroristica”; lo stesso che ha detto che la riduzione delle razioni di cibo da lui decisa fosse una “misura deterrente”; lo stesso che ha suggerito di dare ai prigionieri palestinesi “una pallottola in testa” invece del cibo: “Dovremmo ucciderli con una pallottola in testa e condannare a morte i terroristi”.

Secondo le organizzazioni in difesa dei diritti umani lo Stato israeliano viola apertamente il diritto internazionale, in particolare la Convenzione Onu contro la tortura e la Quarta Convenzione di Ginevra, che impongono la protezione dei civili sotto occupazione. Ancora più grave, secondo l’organizzazione, è l’atteggiamento della Corte Suprema israeliana, che avrebbe scelto di “non vedere”, permettendo che le prigioni si trasformassero in zone d’ombra, zone senza legge. Per B’Tselem, non un effetto collaterale della guerra, ma un’estensione logica del sistema di dominio sui palestinesi: arresti arbitrari, condizioni disumane e punizioni collettive che servono a mantenere un intero popolo in uno stato di sottomissione e paura.

A oggi nelle carceri israeliane ci sono 10 mila detenuti palestinesi, quasi 4 mila in detenzione amministrativa, ossia imprigionati senza accusa né processo, sulla base di prove segrete che né i detenuti né i loro avvocati possono visionare. Tra loro 400 sono minorenni arrestati in operazioni di massa nei territori occupati, bambini che vengono sistematicamente processati davanti a tribunali militari. Ammar dice che non c’è una famiglia in Palestina che non abbia esperienza della prigione. E a guardare i numeri si capisce perché: le organizzazioni umanitarie stimano che dal 1967 oltre un milione di palestinesi, circa un quinto della popolazione totale, siano stati imprigionati almeno una volta, intere generazioni sono cresciute conoscendo la prigione come un’esperienza collettiva, un simbolo di oppressione permanente. Nella prigione di Ramon, con Ammar c’era suo nipote di vent’anni. È il ricordo peggiore che ha degli ultimi 30 mesi. Non quelli legati a lui, quelli legati all’impotenza di non poter aiutare qualcuno che sta soffrendo. “Ero sconvolto, non sapevo cosa fare, sentivo mio nipote gridare mentre gli rompevano le ossa e non potevo fare niente”.

Appena è tornato a casa, la settimana scorsa, Ammar Jawabra è stato convocato dall’intelligence israeliana. Gli hanno consigliato di non parlare troppo degli ultimi due anni e mezzo. E invece Ammar parla, perché dice che “se vuoi giudicare le democrazie devi vedere come appare una loro prigione”. Così ha parlato nel lungo incontro concesso a La Stampa, nella stanza dove tiene i libri a lui più cari, davanti al figlio più piccolo di appena dieci anni. Che ha ascoltato il racconto del padre, i dettagli sugli abusi e anche le sue parole finali: “Come è possibile che i governi alleati di Israele, le organizzazioni come l’Onu, le agenzie che difendono i diritti dei bambini, i diritti umani, che sostengono il diritto internazionale, come è possibile che società che si definiscono democratiche abbiamo permesso questi abusi sui palestinesi per decenni?”.

Autore dell'articolo: feniceadmin