Ivrea, lì 17/09/2020
Sono passati ormai parecchi giorni dall’ultima volta in cui mi sono avvicinato a questa tastiera per incominciare a battere un nuovo articolo e ciò deriva dal fatto che proprio in relazione allo scritto che riporterò di seguito, ho attraversato un periodo piuttosto “vivace” dal punto di vista sentimentale ed emotivo; per via della mia situazione a livello giuridico, del mio destino ancora incerto e del sostenimento difficile e doloroso delle relazioni a distanza, che cerco di mantenere il più saldo possibile con le persone che amo.
Sembra proprio che si sia attuato in me un vero Mutamento, esattamente come auspicato e voluto, citando il titolo del mio articolo di riferimento, in collaborazione con Michelangelo (mio stimato amico e confidente, che reputo sinceramente come un nonno mancato).
In particolare, a seguito di un percorso di introspezione interiore, di confronto assiduo con gli operatori interni del servizio di educazione e psicologia del S.E.R.T. (sempre molto efficienti e disponibili) e di colloquio costante con altri detenuti più anziani, sicuramente a loro malgrado molto più esperenti di me nell’ambito della vita normale e carceraria ed a mio avviso molto intelligenti come Angelo, Pino, Mario ecc., ho potuto navigare nel profondo del mio inconscio per ricercare ed afferrare solidamente nodi irrisolti e scioglierli dolcemente. Ho scavato ed ho trovato, ho lavorato e faticato ed ora mi sento diverso, più consapevole, forse anche più maturo ed un po’ più saggio, nonostante la mia giovane età.
Vorrei a questo punto entrare nel vivo del discorso, fornendo una risposta all’articolo pubblicato su Varieventuali de La Fenice dal nostro gradito lettore ed “interlocutore epistolare”, sig. Pierangelo Scala.
Mi esprimo anzitutto con un segnale di gratitudine per la sua attiva partecipazione al nostro confronto “carcerati e civili” e mi complimento con lui per la padronanza di un lessico forbito, interessante, le cui basi culturali e didattiche risultano emergere in modo piuttosto evidente. Ho trovato degli spunti di riflessione che mi hanno fatto rileggere più volte il suo articolo in una chiave più critica del solito, poiché talvolta intravedo nel suo scritto dei paradossi o delle ambiguità. Provando ad esprimermi meglio, in particolare mi rivolgo alla sua iniziale solidarietà verso noi detenuti che, come da sue parole, siamo costretti a dover subire uno stigma sociale ed un ostracismo pregiudiziale da parte della società civile, solamente per il fatto di aver messo piede (anche solo per un giorno ed indipendentemente dal crimine commesso) in un carcere, dietro le sbarre.
D’altro canto, nel suo scritto spiccano argomentazioni circa le “nostre lamentele di detenuti” verso un sistema giuridico, carcerario e di recupero sociale totalmente allo sbando. Questa è una certezza, un dato di fatto perché lo sto vivendo sulla mia pelle. La metafora dell’Italia fallita, che non funziona, burocraticamente inceppata, corrotta, ignava ed abulica emerge in tutta la sua patetica chiarezza e si manifesta inequivocabile attraverso un forte senso di delusione e dispiacere vissuto sulla nostra pelle, quando siamo costretti (ovviamente per colpa nostra) a dover trascorre parte o tutta la nostra vita dietro le sbarre.
L’articolo 27 della Costituzione Italiana, che è la più bella del mondo, talmente bella che è un’utopia rispettarne le norme ed i principi, persino quelli fondamentali, cita che la salute e la sicurezza, oltre che la dignità umana in primis devono essere sempre tutelate e garantite dallo Stato, persino nei confronti di un carcerato. Invece non è assolutamente così: ho visto con i miei occhi violare questo principio sin dai vertici delle istituzioni, a partire dalla fattezza architettonica fatiscente degli istituti di pena, dalle ridotte dimensioni fisiche delle celle e relativi spazi vitali, dalle scarse condizioni di igiene, dalle illusorie attività rieducative e riabilitative inesistenti, dal menefreghismo a cascata ed a effetto domino degli strati di comando, a scendere, a cadere, un vuoto a perdere.
Noi non ci lamentiamo perché abbiamo rubato, rapinato, spacciato, picchiato o persino ucciso, siamo consapevoli e pentiti di ciò che abbiamo commesso e per forza di cose costretti ad accettare la natura della pena che ci viene inflitta: la privazione della libertà, la costrizione ad orari ed eventi di vita quotidiana, la sofferenza individuale e la difficile gestione delle relazioni interpersonali interne ed esterne (contatti con famigliari che soffrono quanto noi per ciò che abbiamo commesso). Questa consapevolezza però, ci rende sì passivi, inermi, impotenti in questa giostra che stride, perde bulloni, gira storta e ad ogni giro rischia di far cadere qualcuno causando persino danni irreversibili, ma non ci può privare della libertà di pensare che al contrario di quanto millantamente proclamato da numerosi governi, organi istituzionali, sindacati eccetera, questo sistema e questa giostra sia vecchia e rotta da ormai più di un trentennio.
Non mi ritrovo assolutamente con le parole di Pierangelo, quando afferma che “per quanto importanti, le condizioni sociali, i supporti dei professionisti del recupero, non siano determinanti ai fini del Mutamento”. Anzi, è proprio grazie al supporto delle poche persone affabili, disponibili e professionalmente preparate che ho potuto curare mal di stomaco, nausea, insonnia, incubi, attacchi violenti di ansia e non solo… Maturare come sopracitato una nuova consapevolezza di me stesso, in positivo ovviamente. Purtroppo io sono uno dei pochi fortunati qui dentro al carcere, perché ho una pena sulle spalle relativamente bassa ed un futuro da ricostruire nella legalità e nel rispetto di me stesso e degli altri. Per molti miei “compagni” invece la storia è diversa e ciò nonostante (sempre per esperienza tangibile) posso assicurare che desiderano arditamente cambiare, migliorare, trasformarsi in meglio (siamo tutti esseri umani ed ogni mente è un microcosmo, non dimentichiamocelo mai), non hanno la possibilità di scostarsi nemmeno di un millimetro dai binari sui quali viaggiano da anni come anime traghettate con la luce spenta negli occhi, un senso di colpa pesante e faticoso che li attanaglia quotidianamente e la speranza ormai perduta di uomini (o ciò che ne rimane) che suscitano più tenerezza che timore.
Esistono carnefici e vittime certo… Anche gli stessi carnefici sono destinati a diventare vittime di sé stessi, ma certe pene e soprattutto le modalità e le condizioni vitali nelle quali sono obbligati a scontarle, li alienano dalla stessa natura di un essere umano, violano i principi costituzionali, calpestano anche i minimi diritti alla salute, talvolta quelli legati al mantenimento delle relazioni affettive… Il cervello con le sue connessioni sinaptiche si trasforma, a volte si atrofizza e se c’è tanta spinta alla vita e forza di volontà, se non si atrofizza, comunque cambia, proiettando questi “poveri diavoli” in una realtà parallela, estranea al mondo normale, distante anni luce da una reintegrazione sociale. Non tutti i detenuti sono “veri criminali”, non tutti gli assassini sono psicopatici, non sempre l’educazione famigliare o l’evitare situazioni e circostanze sociali devianti preserva l’essere umano da un potenziale “Errore Fatale”. Tutto può accadere in meno di un secondo, in circostanze assurde, in condizioni psichiche alterate, uniche ed irripetibili e la vita d’un tratto diventa l’inferno…
Nessuno è esente dagli sbagli e sono convinto che tutti noi abbiamo inconsciamente il potenziale per poter commettere questi famigerati “Errori Fatali”. Certo è che la forza d’animo, la tranquillità interiore e la capacità di autocontrollo giocano un ruolo cruciale nel nostro destino, ma il destino a volte è proprio beffardo, talvolta persino bugiardo e si finisce per tagliarci le gambe da soli.
Non c’è forse frase più chiara ed inequivocabile che per capire bene ciò di cui sto parlando, bisognerebbe vivere davvero l’esperienza carceraria o perlomeno farci un giro da spettatori. Vi assicuro che l’impatto è violento, il clima è strano e inospitale, i muri sono impregnati di sofferenza e l’aria è pesante. Ci farebbe incredibilmente piacere poter avere una minima opportunità di confronto diretto con persone pregiudizievoli nei confronti del carcere, di noi “malati”, come asserisce Pierangelo; per far comprendere che siamo nient’altro che persone, fatte di carne ed ossa, rese inermi ed indifese.
Il fatto che ci farebbe piacere però, non è da indursi ad un riscatto sociale che desideriamo raggiungere, perché sappiamo benissimo che non si può più cambiare il passato, né distorcere la realtà ed il nostro futuro (se già sancito da sentenze inconfutabili); desideriamo bensì vedere persone, soltanto quello… Provare la gioia di poter interloquire con qualcuno che sta vivendo la Libertà, proprio quella che non sai cos’è finché non la perdi perché te la tolgono… Un sorriso, una battuta, un piccolissimo gesto che ci dia l’opportunità di scrollarci di dosso ogni tanto questa sgradevolissima sensazione di sentirci come animali in gabbia, persone regredite a stadi inferiori di evoluzione, isolati dentro bolle di sapone che vagano in un’atmosfera incolore, inodore, insapore e del tutto asettica. Per essere maggiormente incisivo, forse eccessivamente crudo ma efficace, mi è capitato di sentire espressa da persone condannate all’ergastolo una preferenza alla pena di morte, rispetto ad una detenzione a vita “all’italiana”.
La redenzione non è per tutti, il Mutamento parte da dentro di noi, attraverso fattori inconsci non controllabili dalla nostra ragione, ma anche e soprattutto per fattori intenzionali e volitivi. Non tutti sono pronti a redimersi, né desiderano farlo.
Tuttavia a chi lo desidera veramente, auguro con tutto il cuore che Dio gli possa donare le ali, per provare la felicità di spiccare il volo, solo per un istante, nella fantasia o in sogno al di fuori di queste sbarre e da queste alte tristi mura di cemento.
Diego T.
collaborazione di Michelangelo D. (Uomo Ombra)
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