Tra memoria e l’attualità dei pestaggi di Santa Maria Capua Vetere.
In quarant’anni e passa di carcere ininterrotti, ho subito molti trasferimenti per punizioni perché nelle varie carceri in cui di volta in volta andavo a finire chiedevo solo i miei diritti di essere umano.
Mi ricordo di quella volta, tanti anni fa, quando dal carcere di massima sicurezza di Pianosa mi trasferirono nel carcere di massima sicurezza di Sulmona.
Quella notte mi ero addormentato tardi.
Avevo fatto le ore piccole a scrivere.
E stavo sognando il paradiso.
Mi trovavo in un luogo senza sbarre.
E invece che dalle guardie in divisa ero circondato da tanti bei fiori.
Poi all’improvviso sentii dei rumori, aprii gli occhi.
In un colpo vidi la mia cella circondata da guardie vestite di grigio, notai subito che avevano facce soddisfatte.
Denti bianchi e aguzzi.
Sembravano tante iene invitate a un banchetto di sangue.
Ebbi subito timore che fossero entrati in cella per darmi una scarica di calci e pugni perché qualche giorno prima mi ero preso a male parole con il direttore.
Il brigadiere subito con voce da guappo: “Lei ha solo cinque minuti di tempo per prepararsi. Può portare con sé solo cinque chili di indumenti. Il resto glielo manderemo in seguito nel carcere dove va, come al solito.
Forza … – e con il sorriso sulle labbra – Si alzi … Non ci faccia perdere la pazienza.”
“Datemi il tempo di svegliarmi e di prepararmi la roba .”
Poi mi alzai lentamente per farli incazzare. Feci lo spavaldo, ma mi giravano le palle.
Preferii non tirare troppo la corda.
Mi stavano già guardando male.
Ero abbastanza sicuro che le guardie non mi avrebbero picchiato, sia per il viaggio da affrontare, sia perché di solito le prendi nel nuovo carcere dove arrivi.
Attraversai il corridoio con lo zaino sulle spalle.
E con il cuore disilluso. Avevo un brigadiere davanti. Due agenti ai miei fianchi. E due alle spalle. Non potei salutare nessuno dei miei compagni. Avevano tutti i blindi chiusi.
E le guardie avevano chiuso anche gli spioncini per impedirmi di scambiare un cenno di saluto con chiunque. Mi portarono all’ufficio matricola. Mi fecero firmare delle carte poi mi chiusero nella cella liscia. La chiamavano così perché non c’è dentro nulla. E di solito le guardie le usano per massacrare i detenuti. C’era odore di chiuso, ma anche di qualcos’altro. Qualcosa di familiare. Chiusi gli occhi e sentii meglio il puzzo di quella cella.
Era l’odore di sofferenza che conoscevo bene, andai a mettermi in un angolo, in carcere non si sa mai cosa può accadere. Ed è meglio sempre avere le spalle al muro. Nell’attesa che arrivasse la scorta mi accesi una sigaretta. “In carcere la sigaretta è una compagna più che un vizio”.
All’improvviso sentii l’inconfondibile rumore delle manette.
E i passi degli anfibi delle guardie. Spensi la sigaretta. E non mi mossi fin quando non vidi il cancello aprirsi. si affacciò il caposcorta. Mi chiamò per nome e mi fissò negli occhi. “Venga. Se deve andare in bagno lo faccia adesso perché non faremo fermate.” Pensai che non sarebbe stato un bel viaggio. Arrivai al blindato. Mi fecero salire. E mi chiusero nella celletta interna senza togliermi neppure le manette. Ero indeciso se pensare a calmarmi o cercare di pensare a qualcosa per incazzarmi. Alla fine decisi di prenderla con filosofia sulle labbra e mi sedetti rassegnato perché non potevo fare altro.
Arrivai nel carcere di Sulmona distrutto dalla stanchezza, dalla fame e dalla sete. Dopo il viaggio obbligato nell’ufficio matricola e quello del magazzino le guardie mi fecero strada verso le celle di punizione, la cella puzzava di umido, ferro arrugginito.
Pensai che non avrei dovuto aspettare molto.
Poi li sentii arrivare.
Ogni carcere ha la sua “squadretta” di guardie che fanno il lavoro sporco.
E quelle del carcere di Sulmona erano famose per tutti i detenuti che avevano massacrato di botte.
Per non pensare ai calci e ai pugni che presto sarebbero arrivati, tesi le orecchie per concentrarmi sulla pioggia che scendeva forte. Mi entrarono in cella in sei. Il più grosso e più alto mi si parò subito davanti, sentii che gli puzzava il fiato di vino.
Pensai che non me ne andava bene una, perché da ubriachi le guardie picchiavano più forte.
All’improvviso mi arrivò un pugno che mi fece sbattere contro il muro di fronte. Non potevo fare altro. Non mi conveniva. Non dovevo muovermi. Fin quando non si fossero stancati.
Mi arrivavano una cascata di pugni e calci. Chiusi gli occhi e desiderai di morire.
Per un attimo mi sembrò che la vita mi stesse abbandonando.
Poi le guardie si stancarono di picchiarmi.
Andarono via.
E io mi sentii triste da morire.
Ecco perché sono solidale con i detenuti di Santa Maria Capua Vetere, sono passati anni ma niente è cambiato, tutto è uguale, anzi, è vero … qualcosa è cambiato, solo le divise, dal grigio sono passate al blu, ma le ingiustizie sono rimaste uguali, le “ingiustizie della penitenziaria.”
M.
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