Incubi e deliri nell’attesa di qualcosa
Incubi, compagni fedeli di molte notti insonni trascorse in carcere.
Il carcere, una parola che incute soggezione, intimorisce ed intimidisce la società civile, le persone “normali”.
Ma cos’è la galera ?
E’ un luogo di afflizione e dolore, creato per prostrare ed annichilire i corpi ma soprattutto le menti degli sventurati che cadono in questo meccanismo, nel tritacarne delle carceri italiane.
Il carcere è stipendificio, se è vero come è vero che per 58.000 detenuti ristretti nelle patrie galere vi sono in servizio 33.000 agenti, tra l’altro perennemente sotto organico, più di un guardiano ogni due detenuti, cifra esagerata.
Il carcere è burocrazia; nonostante l’informatizzazione dilagante ed imperante tutto è quasi immutato rispetto a 30, 40 anni fa.
Carte, plichi, fascicoli che passano di mano in mano, rimaneggiati, perduti, ritrovati, protocollati.
Un imperfetto meccanismo che ha continuamente bisogno di combustibile per poter funzionare; e qual’è questo combustibile?
Il più prezioso del mondo, le vite umane.
Le persone pagano il loro debito con la società con due delle monete più preziose del mondo, spesso purtroppo date per scontate dai più, il tempo e la libertà.
Nei penitenziari si torna in un certo qual senso ad uno stadio di vita più primitivo; vige la legge del più forte, fisicamente e caratterialmente; i deboli vengono spazzati via, piegati dal sistema.
Non è un caso che, dei 4000 suicidi l’anno compiuti in Italia, circa 300 siano consumati nelle carceri.
Per chi ce la fa, e fortunatamente sono i più, si entra di carne e si esce d’acciaio, nella migliore delle ipotesi; altrimenti si finisce prostrati, vinti, atterriti.
Si entra con un diploma in micro delinquenza e si esce laureati nelle più disparate attività illecite.
Il carcere è fucina di futuri carcerati.
Una volta usciti è facile ricadervi, le statistiche sulla recidiva parlano chiaro.
Il nostro sistema penale dovrebbe essere di tipo rieducativo, ma di rieducativo ha ben poco.
Migliaia di persone, di storie spesso fatte di disagio ed emarginazione sociale, energie vitali vengono sprecate in un’immobilità perenne.
Una volta usciti si è lasciati allo sbando (non che all’interno delle strutture si sia seguiti poi chissà quanto..).
Chi assumerebbe per un mestiere regolare un ex galeotto?
Come giustificare mesi ed anni di inattività in un mondo del lavoro ogni giorno più frenetico e competitivo ?
Difficile, se non impossibile per i più.
Il carcere è tedio.
Una volta superate le iniziali difficoltà di adattamento (sempre che vi si riesca) subentra ben presto, oltre all’immancabile ed onnipresente stress dovuto a centinaia di fattori, la Noia.
Essa paralizza le facoltà mentali, rallenta il tempo, inibisce ed intorpidisce; quasi vietato ogni svago, qualsivoglia distrazione.
La mente si annebbia.
Si attende con trepidazione qualsiasi notizia, il colloquio con i propri cari, una lettera, un nuovo libro, una (rarissima) possibile attività da intraprendere.
Ci si aggrappa a tutto pur di non cadere, di non cedere, di non arretrare.
In questo stato di inattività costante e di “sospensione” il pensiero corre spesso lontano, ai propri affetti: genitori, parenti, figli, mogli e fidanzate abbandonate, spesso coperti di vergogna per i misfatti da noi perpetrati.
La mente vaga… Una foto ricevuta da casa, una melodia sentita alla radio o alla televisione, poche righe ricevute da un nostro caro, fanno emergere ricordi sopiti da tempo, quasi dimenticati in qualche anfratto della mente.
Ed, alle volte, le lacrime salgono agli occhi, solcano i volti, seppur sapientemente tenute nascoste alla vista dei più, poiché in questi luoghi non è possibile far vedere segni di cedimento o di debolezza, pena la sopraffazione.
Ricordi di momenti felici o bui…
Emozioni amplificate, paradossalmente, dagli spazi ristretti.
E così ogni giorno si è un po’ più spossati, stanchi, sconfitti.
Si vorrebbe solo tornare alla pace delle nostre case, al tepore dei sentimenti familiari, alla sicurezza delle proprie cose, di cui qui si viene spogliati, assieme a parte della nostra dignità.
In queste precarie condizioni giunge, infine, il sonno; spesso agitato, nervoso, cosparso di sogni o, più spesso, incubi (strano, fuori non si sognava così tanto…).
Ma un altro giorno è passato.
Il carcere è tutte queste cose e tante, tante altre….
Ed io, che fine farò?
Non mi è dato saperlo, ma vado avanti, conscio del fatto che la vita vera è la fuori, e mi sta scivolando tra le dita giorno dopo giorno.
Riccardo N.
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