Le celle dei fantasmi

Tanto per me non c’è speranza
Di uscire mai da questa stanza
Sopra un lettino cigolante, in questo posto allucinante
io cerco spesso di volare, nel cielo
non so che male posso fare, se cerco solo di volare
io non capisco i miei guardiani, perché mi legano le mani

(Sognando, Don Backy)

Buongiorno a tutti, oggi voglio riprendere un argomento già scritto da me poco tempo fa, sui reparti PSICHIATRICI che si trovano  all’interno di alcune carceri italiane. Come avrete letto nella mia testimonianza, che purtroppo ho vissuto  in prima persona,  vivendo  tutto sulla mia pelle, il degrado, le ingiustizie, i maltrattamenti che ti aspettano quando entri in quel circuito maledetto che  ti rovina, ti toglie tutta la dignità che un essere umano ha, anche se ha commesso degli errori.

Intendo precisare che io non ho problemi a livello psichiatrico, sono stato messo lì per un errore, o per paura da parte di chi mi ha arrestato che mi facessi del male, e ha menzionato cose poco veritiere al mio arrivo in carcere.

Iniziamo a dire che quando sono stato portato per la prima volta in carcere, le forze dell’ordine che mi avevano arrestato, hanno dichiarato al mio arrivo in carcere che ero un “soggetto ad alto rischio di suicidio”. Era la mia prima carcerazione, e non mi vergogno a dirlo o renderlo pubblico che ero molto spaventato di quello che mi stava capitando, il carcere per me era un mondo nuovo, un mondo di cui  non  avevo mai fatto parte, un mondo che non sapevo come funzionasse. Per prima cosa all’arrivo, sono stato messo in una cella vuota, senza lacci delle scarpe “tolti da loro”, in attesa che arrivasse il mio turno per iniziare il tutto:

1) Perquisizione da nudo, con flessioni per vedere se avevo qualche cosa nascosto dietro…

2) Ufficio casellario, per depositare tutto quello che avevo addosso e per firmare la comunicazione scritta dell’arresto che le forze dell’ordine mi avevano consegnato.

3) Passaggio presso l’ufficio matricola dove  prendono i dati, impronte, dove  vengono fatte delle foto di riconoscimento.

4) Lunga attesa per parlare in una stanza con 2 psichiatri e 1 psicologa. Mi fecero mille domande, una dietro l’altra e io risposi a tutto ciò che mi chiedevano.

Lo psichiatra mi chiese: “Come si sente? Ha paura? È la sua prima carcerazione? Come si vive l’inizio di questa nuova esperienza di vita?”.

Io terrorizzato gli risposi che era la mia prima volta che entravo in carcere, che ero parecchio agitato perché non avevo ancora focalizzato quello che veramente mi stava accadendo e di come funzionasse… poi la psicologa incominciò a chiedermi se avevo dei strani pensieri, se avevo intenzione di farmi del male… e io gli risposi di NO, aggiunsi solo che ero spaventato e che non sapevo cosa fosse per me questo nuovo mondo.

Mi fecero alzare, e mi misero in una cella grande con altri detenuti che anche loro aspettavano d’essere portati nei piani assegnati.

Nel frattempo l’equipe medica rimase in quella stanza a parlare per quasi mezz’ora … a un certo punto arrivò un assistente, aprì la cella, mi chiamò  per cognome e mi disse:  “mi devi seguire” e così feci.

Mi portò in  infermeria, al mio ingresso nella stanza medica, trovai il medico e lo psichiatra, mi fecero sedere e mi dissero: “vista la sua  giovane età, visto che è la prima volta che entra in carcere, e visto che abbiamo notato che è un po’ agitato, abbiamo deciso di collocarla in un reparto silenzioso così può stare più tranquillo in più le ho messo una terapia farmacologica temporanea almeno lei può stare più rilassato”, io risposi NO GRAZIE NON VOGLIO FARMACI,  E  LO PSICHIATRA MI DISSE : ”LEI E’ OBBLIGATO AD ASSUMERE A VISTA QUELLO CHE LE HO PRESCRITTO”  si alzò e se ne andò via.

L’assistente mi disse: “alzati che ti accompagno nel reparto che ti è stato assegnato”… mi alzai, e incominciammo a camminare per un lungo corridoio, vedevo solo porte blindate, finestre con sbarre.., un vero orrore!!

A un certo punto l’assistente si fermò davanti a una porta blindata, suonò il campanello, da dentro aprirono la porta ed entrai.

Ricordo bene un piccolo particolare; la voce di un assistente che disse: “ECCO HAI PORTATO UN  ALTRO MALATO DI MENTE?”  E tutti e due si misero a ridere.

Mi accompagnarono fino davanti a una cella, la “n. 24” E MI DISSERO… PREGO  ENTRI, io entrai dentro. Quello che subito  notai fu  che in quella cella c’era solo: 1 materasso sottile appoggiato su uno strato di cemento, una coperta di carta, e nessun cuscino. Il tavolino era di cemento, attaccato al muro, con uno sgabello sempre di cemento fissato al pavimento.

Il wc era vicino al letto dove si dormiva, una turca con 2 telecamere puntate sopra, quindi  la “privacy” non esisteva, la cella era sprovvista di tv, non era consentito l’uso di  radio, accendini, penne per poter scrivere.., ogni volta che volevi fumarti una sigaretta dovevi chiamare l’assistente e chiedere se per favore te la faceva accendere.

Arrivò la sera, ore 20,00 e l’infermiera arrivò con il carrello delle terapie, mi chiamò, mi diede un bicchierino con delle gocce dentro, e tre pastiglie… io gli dissi che non le volevo, così chiamò l’assistente di turno che con minacce me le fece prendere.

Passati poco più di 10 minuti mi accasciai al suolo, poi un lasso di tempo di cui non ricordo nulla, so soltanto che mi svegliai al mattino alle 7 mentre passava la “colazione”, ero tutto frastornato, non lucido, non capivo il perché avevo passato tutta la notte a terra.

Mi accorsi che avevo i pantaloni della tuta bagnata e mi accorsi che mi ero urinato addosso senza rendermene conto.

Questo  incubo durò per 15 lunghissimi giorni, giorni di vera sofferenza, non mi riconoscevo più, ero uno zombie che camminava in una cella senza una meta.

Ricordo che in quei giorni vidi tanti detenuti, tutti in uno stato di degrado totale… detenuti che dormivano a terra nudi, con le feci a fianco, detenuti  con le bave alla bocca che non avevano nemmeno la forza di parlare per la troppa terapia che dovevano assumere.

Finalmente arrivò il “mio”  giorno in cui  mi comunicarono che ero stato scarcerato.

Io, come uno zombie, mi incamminai con l’assistente lungo il corridoio che portava all’uscita da quel lager, sbattevo attaccato ai muri, non avevo forze addosso, non ero completamente lucido… all’uscita dal carcere, c’era un prete e gli chiesi gentilmente se poteva chiamare la mia famiglia per farmi venire a prendere in quanto non ero in grado di prendere bus o treni, e così chiamò mia moglie e mi vennero a prendere.

Ricorderò sempre quel prete che mi ha fatto compagnia fino all’arrivo della mia famiglia che si trovava  a 80km da Torino, e che mi disse: “sei giovane, non rovinarti la vita in questi posti pensa a Dio e lui ti aiuterà…” Queste parole non le scordai più, dopo tanti armi passati ancora oggi sento la sua voce dentro il mio cuore.

Questa si chiama umanità, un prete mai visto, mai conosciuto, è rimasto con me per quasi 1 ora e mezza ad aspettare i miei famigliari, ha dedicato 1 ora della sua vita per aiutare una persona in difficoltà, “me”.

Concludendo, ringrazio per la vostra attenzione… il messaggio che voglio fare arrivare a tutti e che chi finisce in quei reparti, si trasforma in “un fantasma che cammina senza meta”, con solo tanta sofferenza dentro per quello che  vede, per come viene  trattato all’interno, per l’indifferenza e per la violenza fisica e psicologica  che spesso subisce  pura crudeltà, senza alcuna ragione.

M.O.CARLO

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Autore dell'articolo: feniceadmin