Amarcord Elisabetta

Ricordo ancor con nitidezza, nel pieno della giovinezza, una frangetta color del grano ed una dorata treccia che cadeva sempre di lato. Occhi sognanti color della notte, impreziosivano un viso all’apparir nell’immediato assai serioso, non abbastanza da non lasciar intravedere la delicatezza dei lineamenti suoi e le labbra seppur serrate dal Canova sembravan disegnate.

Così le frizzanti mattine versiliesi diventano d’incanto poesia nel salire a bordo di quel treno che da Quercetta a Pietrasanta mi riportavano a studiare e senza saperlo scegliendo quel vagone, il fato mi offriva l’occasione di sederle accanto.

La sua eleganza discreta sembrava trasformare le spoglie pareti dello scompartimento, regali ornamenti degni di scrigni nobiliari d’altri tempi.

L’atmosfera da lei inconsapevolmente creata faceva sembrare un leggero trastullio il rude sobbalzare delle rotaie che di tanto in tanto accompagnava il nostro viaggiare.

Quei sobbalzi ancor oggi in parte maledico o forse a loro dovrei dire grazie, poiché come protettiva madre prolunga più che può la fanciullezza del pargolo suo, quelle ruvide rotaie con le loro naturali imperfezioni e sobbalzi innaturali, confondevano il frastuono del mio cuore infatuato, tentando di proteggerlo da facili illusioni ogni qualvolta furtivamente il mio sguardo il suo incontrava.

Mi chiamo Elisabetta e nel dire ciò distrattamente dal suo zaino scivolò un libro… ”Cime tempestose”.

Che diaboliche strategie allor pensai talvolta usa il destino, per far barcollare il cuore d’un ragazzo ancor non avvezzo all’amore.

M’affrettai manco fosse una gara a tempo a raccogliere quel libro, ciò non impedì data la simultaneità d’intenti, alle nostre mani di toccarsi e quel contatto seppur fugace, d’esser in vetta a quelle “Cime tempestose” mi fece immaginare, per lei probabilmente tutto fu più naturale.

Mi regalò un delicato grazie, contornato da un sorriso luminoso che quelle labbra divinamente disegnate non avevo dubbi sapessero donare.

Risposi al grazie e al suo sorriso presentandomi per nome, decantando la mia soddisfazione per quella compagnia su quel vagone.

Lei rispose con la solita dolcezza che dal dì seguente non sarebbe stata più presente, avendo aperto il cuore suo ad un ragazzo che l’avrebbe accompagnata in ogni sua futura mattinata.

Di sicuro oltre ad esser a lei gradito, l’imprevisto contendente sull’amor avea più nitida la mente.

Altre figure nei giorni a seguire quel vagone vidi riempire, ma mi pareva esser sempre solo nonostante quell’andare e quel venire.

Rimuginavo sulle mie esitazioni colpevoli delle mie illusioni, che come la nebbia si dissolvevano al primo Libeccio mattutino.

Oggi che dell’amore ho più contezza, l’amarcord di un tempo che fu, testimone silenzioso di quell’incontro nel mio itinerare, tra l’odor pungente di pini versiliesi e la brezza marina, tipico delle terre ai piedi degli Apuani monti, non aprono in me laceranti ferite, né rivestono a lutto quelle immagini in me ancor lucenti come i raggi del sole che al mattino baciano il risveglio viareggino.

M’avvolge invece una confortante tenerezza per quel che poteva ed invece non è stato.

Mi convinco, anzi ne sono certo, che ogni incontro se nutrito dalla gentilezza, consegna all’eternità ogni sguardo, ogni parola e quegli infiniti silenzi che in realtà sono frasi non dette che il corso di molti incontri avrebbe potuto cambiare.

In fondo siamo epici come gli eroi della Grecia antica, a quotidiane battaglie ci obbliga la vita, nell’amore, nell’amicizia, nell’invidia devastante di taluni nemici e contro noi stessi combattiamo fino al desio per dare un senso alle nostre esistenze.

Ho speranza Divina Elisabetta che il fato nell’itinerare della tua esistenza, inciampi la tua mente nei ricordi di una vita e possa disegnare ancora quel sorriso, ripensando a quell’incontro di due mani tra le “Cime tempestose”!

Anonimo Toscano

Autore dell'articolo: feniceadmin