Vita rubata alla verità, tutto in un diario: intimo, viscerale, impudente, impietoso, spietato.
Rasoiate sul volto dell’ipocrisia, della superficialità, della banalità, dell’insipienza.
Un diario senza mediazioni, senza finzioni, un duello all’arma bianca con se stesso, con l’essere, l’essere stato, con i sogni, con gli errori, le passioni, le sconfitte, le vittorie, una riflessione lucidissima sulla propria vita.
Niente domande, Perchè c’è un tempo per domandare e uno per rispondere.
Ora è il tempo di rispondersi.
Con poche parole: quelle che sono carne e sacrificio e sangue, tormento, felicità, qualche volta “anche felicità”. Parole come sentenze assolute e definitive, che non hanno appello, pronunciate per peccati che non possono avere perdono.
Un peccato più grande di tutti, uno irrimediabile, lancinante, quello che ad un certo punto si confessa quasi per l’orgoglio di un riscatto, o per liberarsi da un insopportabile sentimento di colpa, o sostituito il sangue con l’inchiostro.
Questo è il peccato: non aver scritto e non aver vissuto; aver immaginato le stelle in una notte di luglio e non averle guardate; aver detto l’amore e non aver amato, o aver amato di meno di quanto si poteva, di quanto si doveva. Ma o si fa così o non si è “camorrista”.
La vita o si vive o si scrive, diceva Pirandello.
Adesso confesso ad un giudice che non può essere altro che se stesso; “mentre scrivo parlo, scrivo e fumo”.
Un diario, dunque, che un po’ ricorda, per certi momenti interiori, il “diario in pubblico” di Elio Vittorini. Con una differenza sostanziale, però, che quello era prevalentemente intellettuale, questo invece prevalentemente umano. Attraversato dall’umore nero, da una sincerità a volte pacata, altre volte rabbiosa, da una tristezza senza scampo, dalla stanchezza, dall’horror creato, dall’inquietudine della vecchiaia, da una sovrastante sensazione di morte.
Scrivo questo con un coraggio quasi sfrontato, che non ammette alibi, ne blande giustificazioni.
Lo si può scrivere solo quando si matura una saggezza granitica e amara, quando nessuno ti può togliere quello che hai avuto, quando quello che puoi avere ancora non ti riguarda, quando non ti seduce più nessuna vanità di gloria “camorristica”.
Quando ogni promessa della vita è un inganno della morte travestita, quando il passato si fa tanto lontano quanto il lumicino che si intravede nel bosco di una fiaba, quando il futuro è soltanto la carta buona che ti viene in una mano di poker, allora si può scrivere un diario con questo coraggio.
Quando si pensa che quelle pagine siano le vittime, che non si avrà mai più possibilità di dire altro.
E’ un pensiero doloroso.
Di un’intera vita contano solo pochi giorni, anzi poche ore. Poi tutto il resto è silenzio. Così dice l’Amleto morente.
Probabilmente per le parole vale la stessa cosa: sono davvero poche quelle che contano veramente.
Contano le parole essenziali, quelle che coincidono con un respiro, con un trasalimento, un batticuore. Contano quelle parole che hanno l’arroganza di sfidare l’indicibile, che non sguazzano nella pozzanghera del già detto, che rifiutano ogni artificio, che sanno essere come una pietra di fionda che frantuma il vetro del luogo comune, che sberleffano l’imbecille apparenza.
Probabilmente contano quelle parole che riescono a riprendersi la vita a cui avevo rinunciato in nome di quella inutile cosa che si chiama camorra.
Michelangelo D.(Uomo Ombra)
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