Quand’ero bambino uno dei momenti culminanti della mia giornata era l’ora in cui dopo il mitico Carosello dovevo andare a dormire e a differenza di qualche mio coetaneo che faceva i capricci, per me era un momento di eccitazione mista a curiosità, poiché la mia adorata Nonna era pronta a raccontarmi una favola…era come prepararsi per un viaggio verso mondi sconosciuti, mondi paralleli che prendevano forma nella penombra della mia cameretta, attraverso la voce narrante di Nonna Gina, l’ironia e la cadenza del nostro dialetto toscano accompagnavano quella voce a volte grave a volte morbida ed avvolgente come la più calda delle coperte che coprivano il mio lettino nelle notte invernali.
Crescendo, tali ricordi, vengono accompagnati da un sorriso misto malinconia nella consapevolezza che niente e nessuno può riavvolgere il nastro della vita, ma i ricordi…ah i ricordi sono la struttura portante della nostra esistenza, il rifugio segreto per resistere alle tempeste, il passepartout per aprire tutte le porte, per sentirsi liberi quando sei prigioniero nel corpo e nell’anima.
La sicurezza ed un pizzico di presunzione spesso accompagnano le nostre vite ed io non ho fatto eccezione, perché avrei dovuto! In fondo avevo un’età nella quale le esperienze maturate e le difficoltà superate, in automatico ti fan acquisire sicurezza e la convinzione di esser quasi sempre nel giusto anche quando volontariamente cammini sul filo del rasoio, facendoti dimenticare che, per quanto tu sia un bravo equilibrista, il rischio di cadere e di ferirti è sempre ineluttabilmente presente.
“Basta solo un minuto” così cantavano i Pooh in una loro vecchia canzone e un minuto è bastato affinché il mio mondo si ribaltasse per dieci lunghi mesi, proiettandomi in un’altra galassia così vicina, così lontana agli occhi e nella percezione di noi uomini liberi, fino a quando ognuno di noi ed in questo caso il sottoscritto atterrano in un mondo parallelo chiamato carcere!
In tale mondo ci puoi entrare da uomo libero e restarne tale facendo del volontariato o altre attività o da persona rea di aver infranto la legge e da quel momento sei un uomo senza identità, soggetto ad accettare regole ed a convivere con altre persone forzatamente, senza via di fuga, sopportandone pregi e difetti e anche quando vorresti sprofondare nel silenzio più assoluto dei tuoi pensieri, poiché oltre alla sezione ne devi condividere pure la cella che non è certo una stanza convenzionale, dove la tua privacy diventa un’utopia.
Sarebbe stucchevole ed eccessivamente retorico soffermarsi sulle dinamiche che regolano il tempo all’interno di una sezione carceraria in quanto bisognerebbe aprire un capitolo a parte su tale argomento, troppe sono le variabili e molto scarsa la mia esperienza di questa realtà dai contorni tipicamente danteschi in alcune peculiarità. Quindi, sintetizzando, immaginandomi come Dante nel passaggio agl’Inferi, ma senza il Virgilio di turno prodigo di consigli e pronto ad intervenire se la situazione si faceva pericolosa, posso dire di aver incontrato uomini ognuno con il proprio inferno personale, con i propri errori e la loro storia che ha modellato a volte in maniera permanente i pensieri e le loro azioni passate, presenti e future.
Ognuno affronta la vita con le armi di cui dispone, metaforicamente parlando il bambino che sei stato sarà l’uomo che comporrà la società del futuro, la cultura, i valori, la fede, gli esempi osservati nella famiglia d’origine saranno gli strumenti caricati nello zaino per affrontare il lungo viaggio chiamato vita, saranno le armi che opporrai a chi la pensa diversamente da te, a chi vive di prepotenza e sopraffazione, a chi crede che vivere accontentandosi è come fare una vita da conigli e non da leoni, a chi crede che non ha senso spaccarsi la schiena per uno stipendio sindacale, ma che bisogna sempre mirare al massimo costi quel che costi, in onore di un Dio chiamato Denaro, unico strumento con il quale puoi costruire una felicità, spesso però basata sul nulla, quella felicità alla quale tutti agogniamo che però possiamo perseguire attraverso strade diverse dal “tutto subito”, dalla cultura dell’apparire e non dell’essere e soprattutto dalla cultura della vendetta, sacrilego per taluni immaginare di fare un passo indietro pur di evitare pericolose spirali delittuose, inconcepibile immaginarsi umili e portatori di pace ed umiltà. Ecco tutto ciò che ho percepito nel confronto con gli altri compagni di sventura, immergersi nei loro inferni facendoti scudo con i tuoi valori e le tue aspettative, anche quando in maniera sottile ti facevano credere che una volta passata quella porta, come scritto nella Divina Commedia ”Lasciate ogni speranza voi che entrate, qui si va per il dolore eterno” sei marchiato a vita e tutti ti riconosceranno come colui che ha voluto uscire dai canoni prestabiliti della società ”onesta”.
Un errore che non ho voluto commettere è quello di travestirmi da ciò che non potevo essere, contrario ai miei principi, partendo da un punto fermo ma che non è così scontato in questo ambiente, cioè aver l’onestà intellettuale di ammettere i propri errori, evitando quei “se” e quei “ma” che lasciano il tempo che trovano e che restano cristallizzati sugli atti giudiziari.
Pur nell’angoscia e nella sensazione di abbandono iniziale ho volutamente allenato il mio cervello a focalizzarsi sulle cose che nel frattempo avevo costruito e che momentaneamente costretto dalla detenzione dovevo delegare ad altri che da fuori credendo nell’uomo che conoscevano, nonostante tutto, stavano sostenendo e che quindi meritavano da parte mia il massimo rispetto…avevo ed ho sempre un obbligo morale e non solo d’infinita riconoscenza e quindi la mia detenzione doveva esser improntata alla resilienza, senza artifizi clinici o comportamentali, tutt’al più cercare un’evasione attraverso un impegno costruttivo nel lavoro, nella lettura, nello scrivere poesie in rima, seguire percorsi scolastici pur nella loro semplicità.
Questo “modus operandi” non ha potuto in certi frangenti evitare pensieri nefasti, come il senso di vergogna, il timore del giudizio altrui, la rabbia per non aver pensato bene alle conseguenze delle mie azioni, il riaffrontare gli sguardi di colleghi e conoscenti senza apparire arrogante, né prostrato per suscitare ipocriti pietismi di facciata.
Mai in nessun momento ho immaginato di spegnere il mio percorso terreno, da uomo ero entrato e da uomo dovevo uscirne, salvaguardando a tutti i costi la dignità di cui nessuna condizione poteva espropriarmi, ero io la causa del mio inferno e da quell’inferno con i valori che da sempre mi portavo dentro dovevo uscirne…per ritornare a riveder le stelle!
Sicuramente la mia esperienza e relativi antidoti, purtroppo non possono essere un passepartout per altre situazioni, specie per coloro i quali il tempo dentro queste mura ha divorato una parte delle loro esistenze e fuori troverebbero più macerie di quante ne potrò trovare io, magari senza amici od affetti ad attenderli all’apertura dell’oscuro portone, per non parlare di chi è portatore di quel “fine pena mai” che ha spesso solo la speranza di insinuarsi tra le pieghe di un permesso per godere di quegli spiragli di luce e di aria che per un attimo avvolgono i loro corpi come miriadi di abbracci invisibili.
L’Anonimo Toscano
Per contattare la Redazione La Fenice o commentare l’articolo scrivi a [email protected] oppure accedi a Facebook alla pagina “La Fenice – Il giornale dal carcere di Ivrea”