Il caso della Fenice sui giornali nazionali

Articolo di Damiano Aliprandi sul quotidiano Il dubbio dell’8 aprile 2025

Giornali chiusi, censure preventive: così il carcere silenzia i detenuti

Dietro le sbarre di alcuni penitenziari si consuma un silenzio imposto: quello delle voci dei detenuti-redattori censurate con divieti e sospensioni “burocratiche”. Ultimo caso: la chiusura de “La Fenice”

Il 7 gennaio scorso, un comunicato ha annunciato la chiusura de La Fenice, il giornale scritto dai detenuti del carcere di Ivrea. Ma non si tratta di un episodio isolato: quello del carcere piemontese è l’ultimo di una lunga serie di casi che, da Nord a Sud, stanno mettendo a tacere le voci dei detenuti- redattori. Progetti nati per dare spazio a storie scomode e trasformare il carcere da luogo di esclusione a spazio di riscatto vengono spenti con metodi ricorrenti: divieti di firmare gli articoli, censure preventive, espulsioni di volontari, sospensioni mascherate da “questioni burocratiche”. Una strategia opaca, che nasconde una realtà scomoda: in molti istituti, scrivere diventa un atto di disobbedienza. A denunciare per primo questa tendenza è stato Giovanni Maria Flick, Presidente emerito della Corte Costituzionale ed ex ministro della Giustizia, in un testo pubblicato sulla rivista online di Ristretti Orizzonti – il più antico giornale realizzato da detenuti, attivo dal 1998.

Nato nel 2018, il progetto de La Fenice aveva trasformato una stanza di reclusione in un laboratorio di idee, dove le parole diventavano strumento di riscatto. Ma le “questioni burocratiche” – un mantra oscuro e ricorrente – hanno spento l’ennesima luce in un sistema che preferisce l’opacità. Una decisione che non è un incidente, ma l’ultimo capitolo di una storia fatta di promesse tradite e diritti negati. Nei cinque anni di attività, La Fenice aveva sfidato l’indifferenza. Tra quelle pagine digitali, i detenuti avevano raccontato errori, speranze, ferite. Parlare di sé, in un luogo dove l’identità spesso si dissolve nel numero di matricola, era un atto rivoluzionario. «Un’urgenza di affermare che anche dietro le sbarre battono cuori», commenta oggi un ex redattore.

La Direzione del carcere e il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria hanno giustificato la sospensione con motivazioni vaghe, replicando un copione già visto: nel marzo 2023 il giornale era stato bloccato, per poi riprendere grazie a un protocollo firmato ad aprile. Ma quel patto, come molti altri, si è rivelato fragile. «Dietro queste chiusure c’è la paura della verità», afferma Francesco Lo Piccolo, giornalista e direttore di Voci di dentro, trimestrale scritto da detenuti ed ex detenuti, intervistato da Professione Reporter. «Quando i detenuti denunciano il sovraffollamento, le celle fatiscenti o la mancanza di acqua calda, alcune Direzioni vedono un’immagine “negativa” da censurare. Ma quei problemi sono reali, e tacere non li risolve».

Ma la vicenda di Ivrea non è isolata. A Lodi, la Direzione ha imposto una lettura preventiva degli articoli scritti dai detenuti per Altre storie, vietando temi come l’emigrazione («in contrasto con la linea del governo») o la sessualità, nonostante i pronunciamenti della Corte Costituzionale.

A Rebibbia, come ricordato da Lo Piccolo, è stato chiesto di non firmare i pezzi e di ottenere liberatorie. A Trento, dopo dieci anni di attività, il volontario Piergiorgio Bortolotti è stato dichiarato “non gradito” per aver raccontato l’inefficienza del sistema. «Sono violazioni palesi dell’articolo 21 della Costituzione e dell’Ordinamento penitenziario», accusa Lo Piccolo. L’articolo 18 di quest’ultimo stabilisce che ogni detenuto ha diritto a «esprimere le proprie opinioni, anche usando gli strumenti di comunicazione previsti». Eppure, in molti istituti, i direttori – spesso alle prime esperienze – preferiscono il silenzio al rischio di critiche. «Si considerano i detenuti come “reati che camminano”, privi di diritti», aggiunge il giornalista.

Nonostante gli ostacoli, una rete di testate resiste. Ristretti Orizzonti, nato a Padova nel 1998, è il più antico: con redazioni a Venezia, Parma e Genova, pubblica una rassegna quotidiana e organizza convegni.

Carte Bollate, bimestrale milanese, coinvolge 25 detenuti affiancati da giornalisti professionisti. A San Vittore, L’Oblò dà spazio a riflessioni sul recupero dalla tossicodipendenza; a Napoli, Parole in Libertà collabora con Il Mattino. Voci di dentro, diretto da Lo Piccolo, è un caso emblematico: 72 pagine mensili, 2.000 copie, diffuso in tutta Italia. «Non è il giornale del carcere, ma il nostro giornale», sottolinea. «Scriviamo ciò che non va, per cambiare le cose. Rispettando il codice deontologico, dalla parte di chi non ha voce».

La chiusura de La Fenice non è solo la fine di un progetto, ma un sintomo. «Il carcere dovrebbe rieducare, non annientare», ricorda Lo Piccolo, citando l’articolo 27 della Costituzione. Per questo, è in corso un tentativo per creare il ‘ Coordinamento dei giornali e delle altre realtà dell’informazione e della comunicazione sulle pene e sul carcere’ promosso da Ornella Favero di Ristretti Orizzonti. Lo stesso sta preparando un documento per denunciare le violazioni al Dap: «Chiederemo un incontro. Il silenzio non è un’opzione».

Intanto, nelle redazioni carcerarie sopravvissute, si continua a scrivere. Perché ogni articolo è un atto di resistenza: contro l’oblio, contro lo stigma, contro l’idea che un errore cancelli l’umanità. Anche perché, in carcere, le parole sono l’unico modo per ricordare che l’esistenza dei detenuti con la loro voglia di riscatto e denuncia. Spegnerle significa rinchiuderli due volte.

Autore dell'articolo: feniceadmin