Proponiamo l’articolo di Damiano Aliprandi pubblicato il 12 luglio sul sito ildubbio.news sul diritto di informazione nel e dal carcere.
Il Consiglio nazionale dell’Ordine dei giornalisti ha approvato un ordine del giorno firmato dai consiglieri Pallotta e De Robert per «tutelare i giornali dove collaborano i detenuti». Un atto di richiamo all’articolo 21 della Costituzione e all’articolo 18 dell’Ordinamento penitenziario, che chiedono il rispetto del diritto di libera informazione anche dietro le sbarre.
In Italia le carceri restano luoghi isolati, dove la trasparenza fa fatica a farsi strada. Il tasso di sovraffollamento è giunto a sfiorare il il 135%, nelle carceri italiane, e mette a repentaglio perfino le vite degli oltre 62 mila reclusi. Numeri che spiegano perché un laboratorio di scrittura in carcere non sia mai solo un esercizio creativo, ma un presidio di democrazia e di umanità. Eppure, in più strutture sono stati imposti controlli preventivi sui testi o bloccati persino gli acquisti di libri: è successo con “Un’altra storia inizia qui” dell’ex ministra della giustizia Marta Cartabia.
Nella Casa di reclusione di Roma Rebibbia, dove si pubblica il giornale “Non tutti sanno”, frutto del laboratorio condotto da un giornalista professionista, in un primo tempo la Direzione ha comunicato che la persona detenuta autore dell’articolo dovesse richiedere autorizzazione per poterlo firmare con nome e cognome, visto che la pubblicazione degli articoli era prevista con le iniziali del nome e cognome, nome di fantasia o di battesimo. Solo recentemente, il diritto alla firma con nome e cognome è stato finalmente riconosciuto.
Nella Casa circondariale di Lodi, la Direzione dell’Istituto “chiede” una lettura preventiva dei testi elaborati dalla redazione di “Altre storie” e pubblicati dal quotidiano della città Il Cittadino e di entrare nel merito della scelta degli argomenti da trattare, vietando temi sensibili come, per esempio, quello dell’immigrazione. Nella Casa circondariale di Ivrea, il 15 giungo 2025, mesi di sospensione “tecnica” del giornale “La Fenice”, edito dall’Associazione Rosse Torri, sospensione imposta dalla Direzione, la stessa ne ha deciso la chiusura, ha annullato gli incontri, bloccato i computer e sospeso l’autorizzazione all’ingresso in carcere ai volontari che portavano avanti il laboratorio.
Nella Casa circondariale a Trento, dopo dieci anni di presenza in carcere come volontario, non è stata rinnovata l’autorizzazione all’ingresso al Direttore del periodico “Non solo dentro”. Guarda caso, successivamente alla pubblicazione di articoli che evidenziavano una serie di criticità della realtà penitenziaria. Sono fatti che ledono i diritti fondamentali: l’articolo 21 stabilisce che «la stampa non può essere soggetta ad autorizzazioni o censure», mentre l’articolo 18 dell’Ordinamento penitenziario garantisce «il diritto a una libera informazione e di esprimere le proprie opinioni» agli utenti del carcere.
Il Consiglio nazionale dell’Ordine chiede al ministro della Giustizia e al capo del Dap di intervenire subito, perché il controllo preventivo non diventi prassi. L’ordine del giorno sottolinea anche il valore rieducativo di questi laboratori: non sono semplici corsi di scrittura, ma un percorso di responsabilizzazione e di reinserimento sociale. Il Consiglio si impegna a monitorare la situazione insieme al coordinamento dei giornali e delle realtà dell’informazione carceraria, per evitare che un diritto costituzionale si trasformi in un privilegio concesso a discrezione delle direzioni.
La posta in gioco non riguarda solo i detenuti, ma l’intera comunità: concedere a chi vive dietro le sbarre di raccontare la propria storia significa rafforzare il sistema democratico, migliorare la trasparenza e contrastare la sfiducia verso le istituzioni.
Se tenere un giornale in carcere diventa un pretesto per impedirne l’uscita, perde senso il concetto stesso di pena rieducativa. «Quando i detenuti denunciano il sovraffollamento, le celle fatiscenti o la mancanza di acqua calda, alcune Direzioni vedono un’immagine “negativa” da censurare. Ma quei problemi sono reali, e tacere non li risolve», aveva denunciato Francesco Lo Piccolo, giornalista e direttore di Voci di dentro, trimestrale scritto da detenuti ed ex detenuti. Il prossimo passo sarà verificare che le parole dell’Ordine non restino appese a un comunicato, ma trovino applicazione concreta in tutte le carceri italiane.
