E’ sempre difficile trattare il delicato tema degli affetti, soprattutto per chi come me è rinchiuso in uno dei tanti carceri di pena ed è costretto a scontare una condanna a vita.
Per molti detenuti, soprattutto ergastolani, la propria sfera affettiva è irrimediabilmente compromessa: rovinata, dimezzata o addirittura negata del tutto da parte di chi invece dovrebbe a suo modo tutelarla per un fine rieducativo. Ormai mi è chiaro da molti anni che il carcere, con le sue regole dure e repressive, incide negativamente anche sui sentimenti più importanti della vita, quelli che si provano attraverso il legame intenso con la propria famiglia, le amicizie più strette, le relazioni amorose più profonde. Tali norme vengono imposte per fini sicuramente punitivi e suppongo anche per garantire un certo grado d’ordine e di sicurezza all’interno dell’istituto.
A volte mi soffermo ad osservare dalla finestra della mia cella, portando lo sguardo oltre quell’alta cinta muraria con filo spinato che mi sta di fronte, per vedere cosa succede tra le persone che vivono quotidianamente ed inconsapevolmente la loro Libertà: le persone si salutano, si parlano, si frequentano. Insomma non mi pare quasi più “normale” concepire che i rapporti sociali possano avvenire per davvero, alla luce del sole, con naturalezza; mi rendo sempre più conto che la vita fuori da queste mura ormai è andata avanti, mutando sempre di più, nei corso degli anni, a differenza di quella che noi carcerati abbiamo vissuto e continuiamo a vivere sempre allo stesso modo, giorno dopo giorno, all’interno di una specie di campana di vetro isolati dal mondo.
A qualcuno sembrerà un giusto calvario, perché siamo criminali ed abbiamo commesso delitti più o meno efferati, sembrerà giusto che questo luogo sia e debba essere un mattatoio di valori affettivi, ma io personalmente non credo affatto debba essere per forza così.
Ogni Istituto Penitenziario, per quanto possa essere all’avanguardia (sotto innumerevoli punti di vista), per quanto più rispettoso e garantista possibile per la Costituzione Italiana, ugualmente logora, violenta interiormente chi lo vive, chi, come si dice in gergo, ”si deve fare la sua galera.”
Qualche mese fa, il Presidente della Corte Costituzionale, in un convegno tenutosi all’interno della Casa di Reclusione di Rebibbia, tappa importante di un viaggio programmato in diverse carceri italiane, ha parlato della nostra Costituzione, dipingendola come la più bella del mondo (come da consuetudine si è spesso sentito dire), ma anche come quella meno applicata. Ancor meno applicata soprattutto nell’ambito carcerario.
D’altronde, cosa ci si può aspettare in un luogo di repressione dove sono rinchiuse persone dalle mille problematiche (soprattutto psicologiche)? Che davvero dalla galera certe persone possano tornare in libertà migliori e che andranno a costituire un concreto minor rischio per la società e le persone?
Personalmente ritengo che il tipo di trattamento carcerarlo attualmente applicato per il reinserimento sociale, ricostruzione, rieducazione dei detenuti non solo induca ad un mero fallimento sotto tali aspetti, bensì induca ad allontanarli del tutto da quello che ritengo più importante per la vita di ognuno di noi: la capacità di mantenere vivi gli affetti, la speranza, progetti ed il senso responsabilità.
Certo, magari In qualche realtà carceraria (rara tra i quasi 200 istituti penitenziari nazionali) la parola “affettività” viene davvero valorizzata, curata e sostenuta. Questo grazie al coraggio ed a progetti innovativi e mirati, proposti e messi concretamente in atto da qualche direttore, con il contributo importante del volontariato, che spesso organizza occasioni ed eventi d’incontro per i detenuti, in modo da poter condividere insieme ai famigliari “una giornata di carcere” ed un “caloroso momento dì vicinanza”.
La realtà dei rapporti con i famigliari
Provate invece ad immaginare quando ogni detenuto viene spogliato da ogni sua possibilità di scelta: è costretto a gestire i rapporti con la propria famiglia, attraverso la disponibilità di sole 6 ore al mese di colloquio, in una sala colma di altri detenuti, che a loro volta cercano di non farsi rubare quel momento così agognato, arditamente desiderato e soprattutto delicato. Viene concesso unicamente di stare da una parte e dall’altra parte di un tavolo separatore, che solo da pochi anni ha sostituito un vecchio bancone di marmo, lungo da una parte all’altra della sala (sempre con funzione divisoria tra detenuti e visitatori).
Per quanto concerne le telefonate, sulla base del vecchio Ordinamento, ne è permessa una a settimana e della durata di soli 10 minuti, durante quali si cerca spasmodicamente di colloquiare frettolosamente con un intero nucleo famigliare… finché, scaduto il tempo, la linea cade, lasciandoti addolorato, disturbato, infastidito, poiché a volte non si ha nemmeno il tempo di salutarsi a vicenda.
Dal mio punto di vista, la sfera affettiva e tutto ciò che le concerne, dovrebbe avere meno limiti possibili e non una rigida quantificazione del tempo destinato al colloqui ed alle telefonate.
Difatti non mi meravigliano le continue notizie sul ritrovamenti di telefoni cellulari nelle celle di quasi tutte le carceri italiane. Anche se non desidero giudicare, né giustificare alcuno, penso tuttavia che se le persone che utilizzano illegalmente un telefonino in cella sono ben consapevoli del rischio concreto di aggravare la loro posizione giuridica ed il percorso detentivo al quale sono destinati, ma la motivazione che li spinge a farlo non sia legata al tentativo di reiterazione di atti criminali o di fornire informazioni al mondo criminale “in libertà”, bensì solamente (come dicevo sopra), di lenire la loro sofferenza e di sopperire alla mancanza di un dignitoso contatto affettivo coi propri cari, magari per stare il più vicino possibile alla propria famiglia, ai propri figli che difficilmente, quando piccoli, possono comprendere ed accettare la nostra condizione detentiva e la costrizione di sentire la voce del proprio padre solo pochi istanti a settimana (perlopiù in orari prestabiliti dai regolamenti delle sezioni detentive o in base al tempi di attesa per il numero delle persone in coda per telefonare).
Queste sono solo alcune delle tante privazioni che vive ogni singolo detenuto, chi più chi meno. Dovrebbe godere invece di un trattamento di reinserimento e soprattutto dell’opportunità di coltivare continuamente i propri affetti nel migliore dei modi, proprio ai fini di un ritorno alla libertà da uomo responsabile, addolcito, smussato, rieducato.
Mi chiedo da un po’ di tempo che fine abbiano fatto le belle modifiche dell’Ordinamento Penitenziario sul rafforzamento dei contatti sociali e dei valori affettivi in carcere, di cui tanto si è parlato.
Presumo che, come tutte le “belle, utili proposte di legge su questa questione” siano conservate all’interno di faldoni in qualche archivio a prendere polvere. Ovvio che se non verranno mai discusse ed applicate, ciò comporterà inevitabilmente un fallimento che non si accompagnerà mai verso ed oltre nuovi orizzonti.
Io reputo sinceramente che il mantenimento del rapporti sociali, soprattutto quelli famigliari, faccia molto bene a noi detenuti poiché l’amore non ha mai ucciso nessuno, anzi, caso mai ha aiutato, curato e tuttora è capace di far sì che le persone non si perdano d’animo nella frustrazione, nell’isolamento, nella disperazione.
L’Amore ci aiuta giorno per giorno a riscoprirci, passo dopo passo.
Michelangelo D. (Uomo Ombra)
collab. Diego T.
Per contattare la Redazione La Fenice o commentare l’articolo scrivi a [email protected] oppure accedi a Facebook alla pagina la fenice – il giornale dal carcere di ivrea