Rimpianto e desiderio
Sono trascorsi moltissimi anni da quando non vedo e non sento mio figlio: l’ultima volta che lo vidi era un ragazzo di vent’anni; ora è un uomo di quarantacinque; divorziato e con un figlio di venticinque.
Persi ogni forma di contatto a causa del mio susseguirsi di lunghe detenzioni: l’ho privato della figura paterna e gli ho rubato l’infanzia.
Il peggior crimine che potessi mai commettere.
È lì, fuori da qualche parte: mi piace pensare che stia bene.
Ricordo ancora di quando, dopo qualche anno dalla sua nascita, desideravo avere anche una femminuccia: se l’avessi avuta, avrei commesso lo stesso ignobile crimine di padre sciagurato.
Spesso mi domando come ho potuto da padre, sia pur da giovane, scegliere la malavita, e perdere di vista l’amore per il proprio figlio.
Spesso mi sono vergognato; tante volte, quando lo penso, piango in silenzio, senza lacrime; e infinite volte mi maledico.
Questa mattina, in aula, durante la lezione sul Rinascimento, mentre la Professoressa spiegava, l’ho guardata e, d’improvviso, un pensiero ha bussato alla mia mente: “per tua fortuna, non sei mia figlia…” ho detto tra me e me.
Chissà cosa pensavo realmente, o quale nostalgico pensiero del passato ha bussato come impazzito, al mio cuore.
Sicuramente, inconsciamente e con profonda nostalgia, ho proiettato l’immagine della professoressa in quella femminuccia.
In quella bambina sempre desiderata e mai avuta.
Ad un certo punto, ho avuto come la forte sensazione di aver lasciato sulla sedia del banco dell’aula il mio corpo, e gli occhi della mente, come un proiettore, in una pellicola a ciclo continuo, fotogrammi di un drammatico e straziante film, mi hanno fatto vedere per qualche istante una bambina sola, triste e senza padre.
Vedo me e vedo lei, vedo noi due insieme: lei, bambina innocente e spensierata che mi tiene per mano; sorride, è felice; io la guardo con amore e tenerezza infinita e sorridendole le dico: “ti voglio bene”.
È un giorno di festa, siamo alle giostre: intorno a noi c’è tanta musica, allegria, luci colorate, un clown; c’è tanta gente e bambini come lei che, insieme ai loro papà, felici sorridono, si divertono e mangiano lo zucchero filato.
Lei scalpita, vuole andare sul “Carosello”; mi affretto e faccio il biglietto, e ad ogni passaggio, sorride e, felice, mi dice: <<guarda, papà>>; la guardo, le sorrido, e sento il cuore gonfio di gioia, di felicità…
Ma poi, all’improvviso, succede qualcosa: la pellicola sembra andare a scatti alterni e, s’interrompe. Non ci sono più le giostre, non c’è più niente, solo un grosso piazzale deserto; guardo verso di lei, ma non c’è.
Di colpo mi sento agitato, disperato, sento il respiro mancarmi: sto male; mi guardo attorno per cercarla, vederla, ma vedo solo cancelli e sbarre; lunghi corridoi e piccole celle.
Sono confuso, lì per lì non capisco, è tutto confuso, offuscato, mi sembra un sogno, un brutto sogno; poi, guardo dentro di me, e una voce mi assale, mi aggredisce: è la voce della mia coscienza.
Solo allora, capisco: il maledetto dio denaro, chissà come, mi ha portato via la libertà, e lontano dalla mia bambina.
In un attimo, in un solo attimo, nelle le mani del destino l’ho abbandonata, e l’infanzia le ho rubato.
Ora, quella bambina, più non ride: nel suo cuore, tristezza e solitudine.
La pellicola riprende a muoversi, uno scatto, un solo fotogramma mi sbatte in faccia: la vedo, e lì, sola, e senza padre.
Sempre,
invocherò il suo perdono.
Quando d’un tratto, vengo destato da una voce di una dolcezza infinita: l’insegnante mi ricorda che stavamo parlando del Rinascimento; in silenzio la guardo, e penso:
<<Per tua fortuna, non sei mia figlia>>.
L’istituzionalizzato
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