L’ultimo incontro tra padre e figlio

La differenza tra l’uomo libero e l’uomo detenuto è il cambiamento radicale delle condizioni di vita. La vita familiare in particolare, in quanto costretta e limitata dalle circostanze, ha un andamento molto diverso in confronto a prima.
Il ristretto ambiente sociale in cui ci si trova a condividere gli spazi con gli altri è impostato su basi che non hanno nulla in comune con le regole della normale vita esterna. L’esistenza stessa viene destinata a non dimenticare i sentimenti dolci, amari e struggenti che si tramutano in sogni variopinti, in immagini, mentre talvolta la gelosia incontrollabile diventa ossessione, i sogni con il tempo si trasformano in allucinazioni e piano piano si ripercorrono tutte le tappe verso la follia. Si vive segregati nel dolore e nel terrore che tutta la vita possa finire lì.
Sentirmi chiamare al mattino perché dovevo andare a incontrare i miei famigliari è stata una gran bella sorpresa, avevo il cuore che batteva mentre percorrevo i lunghi corridoi, fino a quando sono arrivato alla sala colloquio, dove c’era solo un caldo afoso, non vi era alcuna brezza d’aria in quel piccolo recinto chiuso da mura.
Avevamo solo un’ora a disposizione, ma non si può immaginare quanto valga questo pochissimo tempo per un Recluso. Per un attimo chiudendo gli occhi in quest’angolo di sola serrata, potevo dimenticare di trovarmi in carcere e immaginavo di essere circondato da liete campagne inondate di luce, di aria… di essere libero insomma!
Il primo istante in cui ho incrociato gli occhi di mio padre e di mio zio, seduti ad aspettarmi, mi ha procurato una strana sensazione, le mie mani si sono posate tremanti sul vetro divisorio, freddo e insensibile, non saprei dire se fosse gioia o dolore.
Mio padre, non appena ha visto il mio viso pallido dovuto al fatto di stare ventitré ore al giorno in cella, deve avere provato una forte stretta al cuore perché ha tentato di frenare le lacrime.
Anche a mio zio si sono inumiditi gli occhi ed io nella mia timidezza piangevo e sorridevo. Avrei voluto buttarmi fra le braccia di mio padre, ma quella grata, “vetro divisorio”, dura e fredda stava lì, tra me e i miei famigliari che rivedevo dopo tanto tempo e non avrei incontrato mai più… Mio zio era pallido, anche lui piangeva; l’ho guardato come se trovassi in lui qualche cosa di nuovo, di indefinibile. Avrei voluto pure io singhiozzare, piangere a voce alta fra le loro braccia e sentivo che l’affetto donatomi da mio zio in quel momento mi faceva male al cuore. Più io guardavo e più gli occhi mi si riempivano di “moscerini”, attraverso le lacrime la tentazione di ribellione spaccava quel vetro divisorio! E poi fra me e le persone care, in quei momenti ineffabili che dovrebbero essere sacri, c’erano le guardie carcerarie che mi accompagnavano estranee ed indifferente a quella a gioia, a quel dolore e a quelle lacrime…
Non pensate che anche le lacrime abbiano il loro pudore?
C’era anche il luogo che ci proibiva lo sfogo del pianto con il pretesto di essere duro, asettico, senza spazio per le emozioni. Fra tutte queste cose fredde, dure, ingrate, le sbarre erano le meno repulsive. L’ora che mi era stata concessa per rimanere alla sala colloquio passa in un lampo.
Li ho accompagnati con gli occhi fino a dove il mio sguardo ha potuto e mi sono vergognato perché quest’ultima visione era “rubata”, cioè oltre l’ora consentita; ma allorché stavamo per oltrepassare la soglia, il mio cuore si è stretto, mi è sembrato di smarrire il senno. Avevo un presentimento, come se non dovessi rivederli mai più, volevo chiamarli mentre me ne andavo. Cercavo un pretesto per trattenerli ancora per pochi secondi, ma non ho saputo trovar nulla.
Mio padre mi aveva detto: chissà quando ci possiamo rivedere! Mio zio si è allontanato senza parole, mi ha regalato un sorriso e mi ha salutato. Questo è l’ultimo ricordo che ho di entrambi.
Poi solo rumore di cancelli che si chiudevano dietro di me, mi sono sentito percuotere il cuore! Una volta arrivato in cella stringevo ora le sbarre della finestra ora, con mano tremante, il blindato della cella che fissavo con gli occhi, ma tutto rimaneva chiuso!
Che momenti sono quelli, Dio mio, non poterli rivedere poi nemmeno quando sono morti…
Concludo osando invitare le istituzioni ad una profonda, sincera e realistica riflessione sul modo in cui questo paese, attraverso le sue carceri, e una Pena di Morte nascosta quello che viene definito “ergastolo”, come appare agli occhi del mondo, ed anche se il pulpito da cui viene questo invito è quello di uno scarto della società, ed è anche estremamente di parte, vorrei invitare in ogni caso chi ha responsabilità nel fare leggi a ricredersi sulle proprie scelte, come d’altronde sto facendo io che di errori ne ho fatti tanti.
Ed ho imparato proprio da quelli.

Michelangelo D., Uomo ombra FINE PENA 31-12-9999.

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Autore dell'articolo: feniceadmin