Renuccio l’ergastolano

TRA FINZIONE E REALTA’

Novella scritta dall’Anonimo Toscano

Renuccio, figlio di una famiglia chiantigiana a cui piaceva tanto la damigiana, in quella terra di Toscana tra colline e vigneti, galline ruspanti e cani scodinzolanti, aveva mosso i suoi primi passi fanciulleschi e in quella semplice ruralità quotidiana si trasformò in uomo, arando la terra e bevendo vino, accompagnato da formaggio pecorino.
Era un uomo buono e fino, avrebbe potuto fare mille cose ma la pigrizia e l’amor per Bacco permise alla vita di metterlo in scacco.
Alterato dal nettare rosso, un giorno scagliò una pietra in testa al vicino…e scaglia oggi e scaglia domani, si ritrovò le manette alle mani.
Fu trasferito in un’angusta cella e dalle sbarre esagonali della finestra sua così vide l’orizzonte per il resto dei suoi anni.
Aveva tempo per meditare su ciò che aveva fatto, osserva va quel cielo prigioniero che a causa delle sbarre non poteva ammirare per intero.
Le lacrime rigavano il suo volto e ripensava a quella pietra maledetta che vita altrui aveva interrotto.
”Ah se quella pietra avesse rimbalzato, magari sbattendo contro un ramo, tornando indietro la mia testa poteva colpire e forse oggi non ero qui a soffrire!”
Così ragionava il povero Renuccio osservando una formica nera che in barba a quei rami ferrosi con sfacciata impertinenza poteva far avanti ed indietro dalla sua cella, raccogliendo le briciole di pane che agli occhi suoi sembravan quelle pietre che la sua vita altrui avevan rovinato.
Un tintinnio di chiavi scosse i suoi pensieri, l’assistente carcerario con tono imperativo lo invitò a prendere un po’ d’aria pura seppur passeggiando intorno a quattro mura.
Al povero Renuccio non sembrava vero, quell’imprevista novità seppur assai contenuta, regalo straordinario in un mondo quello carcerario, quale ogni gesto o parola posson esser fonte d’iraconda emozione o di lacrima profonda.
Che ci fosse sole, pioggia o vento, il buon Renuccio non rinunciava a quell’incontro con il cielo sopra le mura di mattone grigio e come se s’aprisse il Paradiso.
Lento era l’incedere del suo cammino, così da poter mirare spesso anche da fermo quel gioco di colori e luci che il sole realizzava tra le nubi.
Un mattino come tanti altri mentre s’apprestava a vivere l’ennesima emozione d’’immergere lo sguardo in quell’azzurro cielo, notò sopra una torretta delle anguste mura carcerarie, un folto gruppo di uccellini intento a costruire i loro nidi di sterpaglie, abbellendo senza consapevolezza quella vetta di lamiera che faceva da tettoia a quel punto di controllo, zona di confine con il vivo mondo.
Essendo uomo di natura, nei suoi trascorsi chiantigiani simil creature aveva già mirato e quella macchia color sangue gli fece ricordare gli antichi pettirossi della fanciullezza sua che con fiducia genuina venivano a beccare sulla sua manina molliche e vermicelli per poi spiccare il volo sul ramo più vicino.
Nella speranza di ricreare tale emozione, ogni dì un po’ di briciole di pane appoggiava ai piè della torretta, così facendo una mattina sentì solleticare la sua mano, ormai adulta e frutto di peccato, una mollica rimasta sopra il palmo per un pettirosso più audace fu un’ottima occasione e la cosa si ripeté per molti giorni ancora.
Nel far questo restava accoccolato stendendo la sua mano al piccolo uccellino e non s’accorse o forse fu Pietà Divina che quel muro che da anni cingeva la sua vita, ormai più non gli apparteneva, la sua vita era passata e mirando il suo corpo mortale rannicchiato in quell’ultimo gesto d’amore, or che la coscienza non era più terrena, fu chiaro che la mollica era la pietra, la sua mano era tornata intonsa, il batter d’ali lo
Spirito Divino che il suo peccato aveva allontanato, si sentiva finalmente perdonato.

Autore dell'articolo: feniceadmin