Leggere un’intervista a Mauro Palma, garante nazionale dei diritti delle persone detenute, mi ha dato lo spunto per una riflessione su una frase detta alla sua interlocutrice a conclusione di un ragionamento lucido e ben articolato sul senso della pena in carcere: pena “certa”, ma non fissa.
La nostra Costituzione, le nostre leggi, nell’affrontare il concetto e il senso della pena, hanno voluto dare ad essa una connotazione dinamica, modulata e a tappe, in una visione positiva, che ha come fine ultimo quello del reinserimento sociale del condannato, previsto dall’articolo 27, terzo comma della Costituzione.
Un percorso certamente complesso attraverso il quale si prevede che il detenuto sia accompagnato, sin dal suo ingresso in carcere, da un supporto psicologico – educativo utile alla revisione del proprio comportamento, con il fine di ricondurlo all’interno della società evitando che ricada negli errori precedenti.
Il nostro sistema penitenziario risponde a questi principi di civiltà?
Bisognerebbe chiedere a tutti coloro che hanno fatto proprio lo slogan della “certezza della pena!”, professato spesso senza consapevolezza, se hanno ben presente il senso che i nostri padri costituenti per primi hanno voluto dare alla funzione della pena.
Vorrei cercare di fare un po’ di chiarezza sul vero significato semantico che lo slogan “certezza della pena” reca con sé.
Non si tratta di bandirlo o rifiutarlo ma quanto meno riportarlo al suo vero e messaggio, senza distorcerne la vera natura ed evitando strumentalizzazioni linguistiche.
Dire certezza della pena, attribuendo a tale messaggio la peculiarità della rigidità della pena irrogata, va in direzione diametralmente opposta ai principi di diritto di cui i si è parlato prima. Sarebbe invece auspicabile riportare il messaggio di tale frase ad una collocazione appropriata: per certezza della pena deve intendersi la capacità dello stato di dare risposta certa ed immediata, con giustizia e proporzionalità ai reati che vengono commessi.
Certezza della pena significa che ogni cittadino deve avere la consapevolezza che ad ogni crimine lo Stato sarà in grado di rispondere in maniera adeguata, sia nel sanzionarlo che nel rendere giustizia a chi subisce il torto.
Se circa il 70% dei reati commessi in Italia non vengono perseguiti e pertanto rimangono ignoti i loro autori, è evidente che qualcosa non funziona.
Se la stragrande maggioranza dei reati rimane impunita è chiaro che questo andrà immancabilmente a riflettersi sulla credibilità e capacità, da parte dello Stato, di contrastare la recidiva.
La minaccia di pene esemplari, fatta attraverso slogan, potrà forse portare una manciata di voti in più ai propagandisti di turno, ma certamente non sarà la risposta adeguata ad un problema effettivo. E intanto si fa leva sui bassi istinti dei cittadini comuni, aumentando in loro quella percezione di insicurezza di cui tanto frequentemente si sente parlare.
E tutto ciò avviene nonostante i dati statistici ci dicano che gran parte dei reati sono significativamente in calo rispetto agli anni precedenti. Un esempio sulle conseguenze deleterie che tale approccio negativo ha generato è l’ergastolo.
Esso è la tangibile e palese dimostrazione di come si sia usciti da solidi principi costituzionali, permettendo che una categoria di condannati sia tenuta al di fuori di quei principi di diritto così che l’unica possibilità di modulare e variare la propria pena sia legata indissolubilmente al verificarsi dei proprio decesso.
L’eventuale ravvedimento della persona condannata che nel corso dei decenni di detenzione avrà maturato, a nulla varrà, perché l’autore di reato resterà per sempre inchiodato al reato commesso trenta o più anni addietro.
E cosi si negherà qualsiasi possibilità di cambiamento e si terrà legato al proprio errore, commesso magari nella debolezza o vuota spavalderia dei venti anni, un uomo ritenuto e cattivo per sempre.
Michelangelo D.
Uomo Ombra
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