L’abbandono di un detenuto come metafora della vita, il percorso a ostacoli sulla strada del reinserimento.
Un detenuto, dal giorno in cui viene arrestato ed accompagnato in una delle patrie galere di questo bellissimo paese chiamato Italia, deve passare attraverso delle trafile di routine che si usano come prassi presso gli istituti penitenziari.
Matricola: compilazione della scheda personale, foto segnaletiche, impronte digitali, segni particolari (tatuaggi, cicatrici, voglie etc.).
Dopo l’obbligatorio passaggio in matricola ci si occupa delle sue problematiche di salute e di dipendenza dalle sostanze, tramite medici, infermieri, assistenti sociali, psichiatri, psicologi… Una volta fatto ciò viene assegnato ad una sezione, ad una cella e ad una branda; gli vengono fornite lenzuola e suppellettili. Successivamente, con il passare del tempo, ci si preoccupa di inserirlo in qualche contesto scolastico e\o lavorativo.
Quindi immaginate voi quante risorse umane e materiali vengono investite per la buona riuscita di tutto ciò. Specialisti, professionisti, agenti di custodia e chi più ne ha più ne metta vengono messi in campo.
Poi ci sono i volontari religiosi, i pastori, i ministri di culto che, puntualmente, ogni settimana predicano per far conoscere la parola di Dio, studiano la Bibbia con commenti, metafore e punti di vista sui vari passi.
Ci sono volontari che si occupano del lato giuridico, tipo richieste di pensione di invalidità, disoccupazione, la spiegazione dettagliata di un articolo penale ecc. ecc. Questo tipo di volontariato si chiama sportello giuridico, al quale si può accedere una volta alla settimana su richiesta del detenuto.
Troviamo poi i volontari della Caritas che, in collaborazione con i religiosi interni all’istituto, si occupano del vestiario (usato) per i più bisognosi, come gli extracomunitari, o chi fuori dalle mura del carcere non ha più nessuno, o anche chi, per la gravità del reato, è stato abbandonato dai propri cari. Ed infine troviamo le benedette cooperative sociali, le quali si occupano di formare una parte dei detenuti, per la maggior parte soprattutto quelli che hanno una pena da espiare abbastanza lunga, che sia di almeno 5 anni. Queste cooperative, grazie ai tanti bravi professionisti che ogni giorno accedono agli istituti penitenziari per insegnare un mestiere agli ultimi, la dignità a chi la dignità l’aveva perduta assieme all’autostima, cercano di fortificare l’anima, la mente ed il corpo di ogni singolo lavoratore detenuto, al punto tale che, a volte, riescono a farli sentire orgogliosi di mandare a casa ogni mese, attraverso un vaglia postale, una bella somma di denaro, 200-300 €, più gli assegni famigliari, per chi ha figli a carico.
Li fa sentire orgogliosi di riuscire a far fronte alle spese processuali e offrire generosamente 112 € al mese al Ministero che li prende in automatico da ogni busta paga di ogni detenuto lavorante, per riuscire a pagare una somma di denaro come risarcimento danni dovuto alle vittime.
Adesso, amici ed amiche lettori, vi chiedo più attenzione nel prosieguo della lettura.
Immaginate quindi un detenuto che è entrato in carcere nel 2005, con recidiva di rapinatore, spacciatore ecc. ecc. con una condanna da espiare di 10 anni, che viene scarcerato nel 2013 grazie ad uno sconto di pena di 2 anni per via della buona condotta intramuraria tenuta, visto che ha lavorato come centralinista al call center, come pasticcere, come operaio addetto all’assemblaggio bici, oppure come operaio manovale, occupandosi della ristrutturazione dello stesso istituto.
Lo chiamano nell’ufficio matricola e gli comunicano che la sua condanna è finita, di prepararsi tutta la sua roba e di lasciare il carcere.
Amici e amiche lettori insisto chiedendovi sempre più attenzione nella lettura.
Il detenuto, per la gioia dovuta alla notizia, inizia ad urlare: “Sono libero! sono libero! sono libero!”. Saluta gli amici con cui per anni ha condiviso gioie e dolori, e si appresta a varcare i pesanti cancelli di ferro, destinazione Libertà. Così, tutto d’un tratto, nel giro di qualche ora, si ritrova sputato dallo Stato nel mondo della società civile.
La prima cosa che fa è alzare gli occhi al cielo e sussurrare la frase: “Grazie Dio”.
Si affretta ad un bar per riprovare la piccola gioia di prendere un caffè in una tazza di porcellana, mescolando lo zucchero usando un cucchiaino di metallo, piccole cose assolutamente negate, nelle carceri.
Quelli che hanno ancora i propri cari “corrono” verso casa, affacciandosi dal finestrino del loro mezzo per sentire il vento accarezzargli il volto ed osservare il paesaggio, una vista per così tanto tempo negata.
Quelli che non hanno più nessuno ad aspettarli, e nemmeno una casa, si recano in una pensioncina per affittare una camera a poco prezzo con i soldi messi da parte in tutti gli anni di lavoro svolti nel carcere.
Nei giorni successivi l’ormai ex detenuto si reca negli uffici esterni della cooperativa dove lavorava all’interno del carcere chiedendo di essere assunto anche all’esterno del penitenziario, ma gli viene detto che non è possibile assumerlo.
Allora lui non si scoraggia e si reca dai volontari della chiesa chiedendo se lo possono aiutare per un inserimento lavorativo; gli viene detto: “Se sappiamo qualcosa al riguardo ti facciamo sapere”.
Si reca successivamente dal pastore evangelista che aveva conosciuto in carcere, chiedendogli aiuto, sempre per un inserimento socio-lavorativo.
Ma anche dal pastore gli viene detto: “Ti faremo sapere”.
A quel punto si reca presso le agenzie interinali, chiedendo di essere inserito nella lista di attesa per un occupazione lavorativa.
In tutto ciò passano circa due mesi, durante i quali soldi iniziano a scarseggiare; tutte le porte a cui bussava, e che lui sperava fossero aperte, gli vengono sbattute in faccia.
Si rende conto della realtà, che si trova ancora una volta da solo in mezzo alla società per bene.
Tutte le speranze, tutti i progetti e tutti i sogni svaniscono tutto d’un tratto.
Così, l’ex detenuto, restando senza più denaro in tasca, si reca in un minimarket e con coltello alla mano lo rapina.
La sua breve fuga dura un’ora; viene arrestato e condotto nel carcere che lui aveva lasciato solo 3 mesi prima.
Dopo la solita prassi di routine, gli agenti di custodia lo accompagnano in una cella.
Ormai il detenuto, sapendo della sua recidiva come rapinatore, era consapevole che meno di 8 anni di pena non gli avrebbero dato; così, aspettando la sera, dopo aver detto l’ultima preghiera, con la cintura dell’accappatoio legata alla finestra del bagno, si lascia andare e, finalmente, almeno la sua anima ritrova la libertà.
Amici ed amiche lettori, dopo aver conosciuto questa storia attraverso questo articolo, io propongo allo Stato di questo paese una soluzione per il sovraffollamento delle carceri, per la recidiva e per la sicurezza stessa della società: propongo una sorta di sostegno di minimo 6 mesi del detenuto al momento della sua scarcerazione, con inserimento socio-lavorativo e monitoraggio delle sue condizioni sociali ed economiche, attraverso gli uffici dell’assistenza sociale e gli organi competenti; così facendo potremmo forse un giorno paragonarci ai paesi più sicuri e civili d’Europa, come la Norvegia o la Finlandia, per esempio.
E voi, cosa ne pensate???
Siamo aperti ad ogni proposta e riflessione in merito…
Francesco C.
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