Il carcere produce scarti sociali

Articolo pubblicato da Sabrina sul sito “La biblioteca di Montag

La rieducazione in carcere produce persone senza dimora, soggettività povere e marginalizzate; contribuisce a farcire le fila degli avanzi sociali che la società stessa rigetta non trovando per loro uno spazio degno di essere definito umano. Succede dunque che una persona che finisce di scontare la propria pena, una volta rimessa in libertà, non abbia un posto dove andare a stare, non abbia soldi e in quanto pregiudicata abbia anche difficoltà a trovare lavoro. In assenza di un’assistenza è costretta a cercare sistemazioni di fortuna, a chiedere aiuto alle persone che ha conosciuto dentro grazie alle attività trattamentali e con le quali ha mantenuto i contatti, a barcamenarsi tra innumerevoli espedienti. In ogni caso, nella sua esistenza post pena cambia poco, lo status che la caratterizza è ben definito dalla scheda nel casellario e dalla condizione sociale in cui si trova: è uno scarto.
Anche A. vive così, come uno scarto. Dorme sui cartoni su scale e sagrati, si lava alle fontane pubbliche, si porta dietro una cerata coi suoi effetti personali, rimedia lavori in nero di qualche ora per guadagnare il necessario per comprarsi da mangiare. Quando non ha, ruba un panino e una confezione di companatico tra gli scaffali della grande distribuzione. Il sistema non prevede percorsi di accompagnamento e tutela post detenzione, nemmeno per le persone sole, che non hanno familiari ad assisterle o aspettarle.
Una volta che la persona ristretta esce dal carcere, i problemi della vita reale e ordinaria sono soltanto i suoi e se il carcere in cui ha soggiornato non ha garantito attività trattamentali e professionalizzanti – non ha, vale a dire, assolto al proprio dovere di rieducazione – la persona detenuta che è riconsegnata alla società viene lasciata fuori dai cancelli in una nudità drammatica di prospettive, senza sostegno, senza nessuna qualifica che sia spendibile a rifarsi una cosiddetta vita.
I. una casa ce l’ha, ma non ha i soldi per pagare l’affitto, non ha i soldi per pagare le bollette, non ha i soldi per comprare la bombola per cucinare, non ha i soldi per comprare da mangiare e soprattutto non ha un lavoro. Si aggrappa a chi può, rischia di risultare inopportuno col suo chiedere, ma come è possibile misurare l’inopportunità – e il fastidio – dell’indigenza; con quale sistema metrico è possibile stabilire oltre quale limite del decoro e della decenza non debba spingersi la povertà?

I percorsi virtuosi esistono, figurarsi, ed esisterebbe anche un regolamento fresco di stesura sulle case di accoglienza per le persone detenute che, non avendo un domicilio, non possono accedere alle misure alternative. Il problema, però, come per le Rems (Residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza), è la disponibilità di fatto delle strutture e, in ogni caso, parliamo di una misura che non contempla di essere estesa alle persone che la pena l’hanno scontata e che, una volta fuori, continuano a non disporre di un domicilio.
La strada è l’unica opzione, oltre ai presidi di accoglienza come le mense e i dormitori che, pur tamponando parzialmente una condizione di disagio, tuttavia non possono essere chiamate casa.
In assenza di condizioni che consentano alla persona un reinserimento sociale e non la spingano a commettere recidive per poter sopravvivere, va da sé che il carcere, come dispositivo correttivo – qualora avessimo bisogno di altri argomenti che lo confermino -, ha fallito.
Ha fallito l’attività trattamentale, screditata e spinta sempre più ai margini nonostante fin troppo spesso sia l’unica forma di impegno della popolazione detenuta. Ha fallito tutto il comparto educativo, che dovrebbe invece sostenere e potenziare le attività trattamentali e le professionalizzanti, la scuola, le pratiche di culto e lo sport. Ha fallito la direzione penitenziaria, incapace di rinunciare a un approccio afflittivo e punitivo che notoriamente, in nome di una non meglio precisata sicurezza, riduce al minimo – quando non depenna del tutto – le attività formative interne di volontariato che potrebbero contribuire al ravvedimento e all’accompagnamento e le misure alternative che consentirebbero alla persona detenuta di reinserirsi gradualmente nel tessuto sociale.
La mancanza di pensiero prospettico nel medio e lungo periodo dà la misura di quanto e come siano considerate le persone dentro i penitenziari, quanto alto sia su di loro il pregiudizio dell’irrecuperabilità e quanto lontana sia la divaricazione tra mondo carcerario e società civile per non tenere conto dei vuoti giuridici, amministrativi, umani dentro i quali precipitano le persone che escono libere. Per il carcere, la persona rilasciata non è più un pensiero. Non lo era nemmeno quando doveva esserlo, quando era sotto la sua giurisdizione, figurarsi dopo. Per la legge, non è né più né meno di un cane randagio chippato e rimesso sul territorio. Una persona controllata, stigmatizzata con la lettera scarlatta della soggettività pregiudicata, ma non pensata come soggettività vulnerabile.
Chi sconta pene lunghe ha enormi difficoltà a riconnettersi con l’ordinario, maneggiare il denaro, spostarsi coi mezzi, utilizzare i dispositivi elettronici, ripristinare anche solo un rapporto sensoriale con l’esterno – la deprivazione sensoriale è una vera e propria patologia che affligge le persone ristrette. Lasciarla sola fuori dai cancelli significa consegnarla a uno stato di disorientamento e a un senso di abbandono in cui, più che la razionalità, ha gioco facile l’urgenza di trovare una soluzione immediata e, quasi sempre, la soluzione immediata non è una soluzione scevra di rischi.
Il problema fondamentale dell’intero sistema è l’essere troppo convulso nelle fasi in itinere, troppo sclerotizzato, troppo macchinoso, troppo lacunoso perché sia possibile intraprendere la costruzione di un sistema ex post, che inizi fuori dai cancelli delle carceri e accompagni la persona ex detenuta nelle fasi immediatamente successive la sua scarcerazione, che la segua nell’istruzione di pratiche e nella compilazione di documenti, nella ricerca di casa e lavoro, nell’apertura di un conto corrente; che le dia un supporto psicologico, un sussidio temporaneo, assistenza giuridica e spirituale. Un sistema, insomma che si faccia carico della cura in un passaggio fragilissimo dal carcere alla società, la membrana sottilissima che separa il confine tra la redenzione e la recidiva.

Ogni anno i dati dimostrano quanto un lavoro e un buon reinserimento sociale abbassino le percentuali delle recidive, quanto una buona attività trattamentale contribuisca alla ricostruzione umana e sociale della persona, oltre che ad abbassare le tensioni intramurarie, il sovraffollamento e il rischio di atti suicidari.
La recidiva è inversamente proporzionale alla riabilitazione della persona come soggettività attiva nel tessuto sociale in cui vive. Predisporre un percorso virtuoso che curi la persona e la metta in condizioni di non tornare a delinquere significherebbe dare senso e valore al tempo della detenzione, ma anche restituire dignità di cittadino e cittadina a chi ha saldato i propri debiti con la legge. Tuttavia, da questo orecchio, buona parte delle amministrazioni penitenziarie sembrano non sentire, in nome di dinamiche più tese alla conservazione dello status quo interno – che, in assenza di alternativa, replica i comportamenti criminogeni dell’esterno – che non invece alla rifondazione delle persone.
Bisognerebbe risalire la catena dell’empatia, dell’umanità per farsi carico di marginalità che diventano oppresse nel momento in cui vengono dimenticate. Bisognerebbe ricordare – come scriveva Anton Čechov – che dalla sacca del mendicante e dalla galera, nessuno può ritenersi al sicuro e ripristinare la centralità della vita umana qualsiasi sia la sua espressione, la colpa che le grava addosso, la scaturigine del vissuto. Bisognerebbe pensare meno al potere e più alla compassione, meno alla punizione e più alla guarigione. Bisognerebbe, insomma, costruire l’utopia possibile nella quale – scriveva Simone Weil – Gli sventurati di questo mondo non hanno bisogno di altro che di uomini capaci di rivolgere loro la propria attenzione.

Autore dell'articolo: feniceadmin