Il Coronavirus può essere più umano dell’ergastolo

Esistono temi su cui è indispensabile confrontarsi per comprendere il livello di crescita della coscienza collettiva. Uno di questi è quello che riguarda la congruità delle pene da comminare alle persone autrici di reati sanzionati con la reclusione in carcere.
Di una pena in modo particolare vorrei parlare, quella dell’ergastolo, altrimenti detto, carcere a vita. Con questa condanna inizia un’inesorabile meccanismo sull’essere che lo porta a spegnersi lentamente.
La lenta inarrestabile condanna a morte inizia a fare il suo corso. Non occorre essere esperti del settore per capire che l’ergastolo equivale ad una pena di morte camuffata da una scelta etica, incapace di guardarsi allo specchio.
Invece di condannarti a morte violenta e immediata, ti lascio morire lentamente, un consumarsi continuo fino all’ultimo respiro in modo tale che non sei morto per mano mia ma per un evento naturale, come tutti gli altri esseri umani. E questo si compie in un luogo lontano dagli occhi e dalle orecchie di una Società poco disposta a sentirsi nominare vicende come queste.
Sebbene la pena dell’ergastolo sia una pena creata da esseri umani, qui di umano c’è poco, perché si nega all’individuo il principale carburante dell’esistenza di ognuno: la speranza.
Senza di essa si fa fatica ad affrontare la propria esistenza in vita, il quotidiano di cui è fatto il presente di ognuno, con il proposito di affermare dei principi di salvaguardia di un bene prezioso come la vita umana. Si comminano delle pene che causano delle sofferenze finché morte non sopraggiunga.
La voglia di paradiso crea l’inferno sulla terra.
A tutte quelle persone convinte che l’introduzione dell’ergastolo sia un segnale di progresso morale, con conseguente stabilizzazione della propria coscienza, faccio un invito a riflettere.
Se crediamo nella possibilità del cambiamento dovremmo lottare per quei fine pena che non tolgono la speranza. Come si può arrogarsi il diritto, in fase di sentenza, di dichiarare in breve sostanza: “tu non sei e, sopratutto, non sarai mai, per quello che hai commesso, degno di poter essere riammesso alla vita nella comunità”?
Penso che nessun essere vivente che si richiama ad autentici principi etici possa esprimersi in tal modo.
Provo a fare un passo indietro; mi trovo da più di 40 anni detenuto nelle patrie galere.
Cerco faticosamente di rialzarmi perché la vita in carcere mi sta divorando giorno dopo giorno. Il tempo qui dentro è feroce perché passa lentamente lasciandomi solo con la mia tristezza.
La vita è stata dura per me, ma so che posso cambiare il mio destino, devo solo sforzarmi di più e credere sempre in un domani migliore, lottare con me stesso per migliorami ogni momento che trascorro qui dentro.
Sono stato io il peggior nemico di me stesso, quindi ricomincio con forza e tenacia il mio percorso di reinserimento, perché in questo Istituto ho trovato un’ancora di salvezza che si chiama “La Fenice“. E’ un’attività di volontariato che mi sta abituando al confronto e ad assumermi le mie responsabilità che non è una cosa semplice e da sottovalutare nel mio caso specifico, visto che miei errori sono iniziati da ragazzo, ma spero con tutto il cuore di farcela.

Michelangelo D. Uomo Ombra

Per contattare la Redazione La Fenice o commentare l’articolo scrivi a   [email protected] oppure accedi a Facebook alla pagina la fenice – il giornale dal carcere di ivrea

Autore dell'articolo: feniceadmin