In un classico risveglio domenicale in carcere mi spingo come sempre a cercare di scovare, fra 15 canali, un programma interessante in tv.
Dopo un po’ mi fermo incuriosito su un programma di Rai Tre che di solito non guardo mai: “Sulla via di Damasco”.
L’argomento principale dei servizi che trasmettono è il “perdono” verso chi ha creato con il suo comportamento una ferita.
Eppure questa storia è la dimostrazione che ci sono persone che riescono ad avere un confronto con il responsabile del male che hanno subito, senza che si invochino pene perpetue come l’ergastolo che chiude ogni possibilità vitale.
Ma qualche volta vittima e carnefice rompono questo schema.
È chiaro che esiste nella stragrande maggioranza delle persone una specie di barriera che tiene sempre accesa quella fiamma del rancore e della ritorsione.
Io non sono nessuno per dire cosa è giusto o meno grave, anche perchè sono tra quelli che hanno causato molti disastri e insanabili ferite ad altre persone, ma ugualmente storie come queste che ho sentito raccontare in quella trasmissione fanno riflettere anche me che sto da quest’altra parte del muro.
Oggi, poi, il perdono è diventato un atto che attira una curiosità morbosa e poco rispettosa: sentiamo spesso, in occasione di eventi violenti e delittuosi, porre alla vittima o ai parenti della vittima, da parte dei mass media, l’immediata domanda circa la possibilità del perdono; verbalmente è offerto, senza però essere realmente dato, in un processo personalissimo, faticoso e lento. Oppure viene dichiarato, sempre in quel frangente, ma senza che ci sia un ascolto paziente della disposizione più profonda ed elaborata che abita il cuore di una persona.
Occorre diffidare di chi perdona troppo facilmente e rapidamente, di chi dichiara il perdono “suonando la tromba davanti a sé” perchè gli altri lo notino, di chi dichiara la sua disponibilità a perdonare senza un vero mutamento di sentimenti, di atteggiamenti, di parole e di gesti nei confronti del reo. Per riflettere su questo tema è bene cominciare ed soffermarsi sul significato della parola “Perdono”, un termine tanto presente quanto indeterminato, che ricopre diverse accezioni.
Chi è arrivato a perdonare il reo sa invece che si tratta di un cammino che richiede discernimento: un cammino lungo, perché richiede tempo; faticoso perchè esige disciplina ed esercizio; un caro prezzo perchè costa sacrificio; un cammino che va sempre riconfermato e ricominciato.
Ecco perchè il cammino del perdono deve giungere a una certa empatia tra vittima e reo, a una condizione di pathos che richiede da entrambe le parti un esercizio di umiltà. Allora la vittima rinuncia a capire completamente chi gli ha fatto il male, percepisce l’altro come una persona fragile al pari di se stesso e non pretende di dare su di lui il giudizio ultimo. Il perdono è il gesto più grande di cui un essere umano è capace; è l’ultima tappa del cammino di umanizzazione di ogni persona. Il perdonare fa bene innanzitutto alla vittima, che esce da se stessa, conosce una pace più estesa. Si sente più libera.
Perdonare è risanante, è balsamo sulle ferite, che da piaghe diventano cicatrici.
Perdonare è un evento che instaura nelle relazioni una fiducia più grande, un’accoglienza più cordiale, una comunione più intensa, non è un caso che secondo la tradizione cristiana sia la più grande gioia di Dio.
Disse Confucio: “Se scegli la strada della Vendetta sii pronto a preparare due fosse, una per il tuo nemico.. l’altra… per te!”
Michelangelo D.
(Uomo Ombra)
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