Le foto che non vanno censurate

Anche stando chiusi in carcere la realtà esterna ci arriva addosso e ci spaventa. Vediamo immagini di guerra che non riusciamo neanche a commentare. Vorremmo però riproporre un articolo , firmato da Mariangela Mianiti, comparso mesi fa sul Manifesto, che potremmo sottoscrivere per intero.

LE FOTO CHE URLANO LA VERITA’

Che cos’è una fotografia? Quando si è vivi, è il fermo immagine di un momento che non tornerà e che può essere felice o meno, ma parla di vita. Quando si è morti, in una foto c’è l’immagine degli ultimi attimi di una persona.
Spesso, per descrivere scene mai viste e drammatiche, le persone dicono: “sembra di stare dentro un film”. Altrettanto spesso, la morte reale è meno spettacolare di quella raccontata nella finzione dove inquadrature, effetti, trucco e luci rendono le scene più vere del vero. Ma qui nelle foto che arrivano dalla Ucraina come dalla Palestina, c’è una crudezza che ridà alla morte la sua dimensione concreta, fatta di persone ammazzate davvero. È quella, una crudezza che va mostrata e guardata negli occhi, perché quello fanno le guerre, e lo fanno in Ucraina, in Siria, Israele, Palestina ed in tanti altri Paesi del mondo per non parlare dei conflitti armati a bassa intensità, che però i morti li fanno lo stesso. Ma nessuno ne parla.
Ma torniamo alle foto, ciò che le rende dirompenti non è il sangue che cola, ma i particolari che parlano di gesti e attimi di esistenza. Una mano femminile mezza annerita e con una fede sbuca da un telo. Ci parla di una donna sposata e ti chiedi se aveva figli, e dove sono adesso. Un’altra mano ha uno smalto fucsia, e allora vedi quella persona curarsi le unghie, scegliere il colore, magari con le amiche. L’uomo che indossa ancora guanti neri, mezzo coperto dalla propria bicicletta, chissà dove andava. Scappava, cercava cibo o era andato a trovare qualcuno? E come si fa a sparare a qualcuno che sta solo pedalando? Che cosa ti si muove nella testa per considerarlo un nemico?
Ci sono due corpi, forse dei militari, mezzi bruciati vicino a un carrarmato distrutto. Uno è seminudo, la faccia sprofondata nel fango, ma ancora si notano i capelli rossi e non puoi non chiederti chi glieli ha accarezzati l’ultima volta. L’altro nel rictus della morte, mostra i denti che sono bianchissimi, perfetti e pensi a chi non vedrà più il suo sorriso. Di alcuni corpi noti gli abiti, gli stivali e i pantaloni pesanti, i giacconi con cappucci rialzati, le calze spesse e vedi i gesti che hanno fatto quel giorno quando si sono vestiti per proteggersi dal freddo, o forse per ripararsi istintivamente, vanamente, dai proiettili.
Noti carni che cominciano a decomporsi, membra accartocciate come fossero dei pupazzi, una testa mezza schiacciata da un veicolo pesante, e ti chiedi da quale abissale violenza è abitata il mondo. E perché tutto questo desiderio di morte? Dalla sabbia di una fossa comune sbuca una ciabatta di plastica di colore rosso, una fronte insanguinata, una mano nodosa, da contadino. Un tombino svela un uomo nudo fino alla cintola e calato dentro, quasi incastrato, poi c’è quell’altro uomo a faccia in giù, con le mani legate, la schiena nuda dove emerge un tatuaggio, buttato lì fra i detriti e pozzanghere, accanto ad altri corpi disarticolati. Sono immagini che parlano di sete vendicativa e di uno sfregio voluto.
Bisogna ricordarsele queste foto, e guardarle, non velarle per non urtare chi è impressionabile, perché francamente, trovo insultante proteggere il nostro buon cuoricino quando altrove, e non solo in Ucraina o Palestina, si muore così.

Autore dell'articolo: feniceadmin