Il mio nome è Angelo. Sono ristretto nella Casa Circondariale di Ivrea. Sulle mie spalle sopporto un peso immenso, quello infinito di una condanna alla pena dell’ergastolo: fine pena 9999. Sono sposato da circa trent’anni e tra pochi mesi diventerò nonno. Mia moglie, purtroppo, vista la mia condizione, potrebbe essere definita una vedova in bianco. Respiro ancora, ma in realtà mi sento un sepolto vivo. Non ci si dovrebbe meravigliare di questo, dal momento che il Codice Penale del nostro Paese risale agli anni ’30, a firma di Rocco e Mussolini, mentre la Carta Costituzionale è nata nel 1948, ovvero un ventennio dopo. Un Codice che prevede una pena di morte lasciando l’essere umano vivo, a soffrire perennemente, senza che possa neanche pensare ad un’ipotesi di riscatto teso a restituire, attraverso condotte riparative, qualcosa alle vittime e alla società tutta. Si tratta di una vera e propria tortura, anche se nel nostro Paese, la stessa, non è ancora stata riconosciuta come reato, al contrario di ciò che è avvenuto in molti altri paesi membri dell’unione Europea.
In un noto film di cui non ricordo il titolo, il protagonista diceva spesso: “domani è un altro giorno e si vedrà”. No! Per gli ergastolani il domani non rappresenterà un altro giorno, sarà un giorno come quello appena trascorso, e così sarà per dopodomani e tutti gli altri giorni a venire. Per gli ergastolani è difficile riaccendere il lume della speranza, perché questo entrerebbe in conflitto con la stessa natura della pena e non fa altro che aumentare la sofferenza. Non hai più nulla, ti manca la cosa più importante: l’affettività. Mentre la consapevolezza di non poterla coltivare pesa come un macigno e rappresenta una delle più feroci barbarie.
Molti non si rendono conto che la vita di un ergastolano fa raggiungere il confine dell’inesistenza, in quanto la vita non vale più ed è peggiore della morte. Non riesco a credere che in una società civile non ci sia nessuno che abbia il coraggio di farsi carico dell’abolizione di questa feroce pena, nonostante vi siano molte persone che continuano a combattere per raggiungere questo obiettivo. L’Articolo 27, comma 3 della nostra Carta Costituzionale è chiaro: “ Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato.” Spesso mi domando: quando si emette una sentenza di condanna alla pena dell’ergastolo, lo si fa in nome del popolo italiano, ma la Repubblica Italiana si fonda sulla Carta Costituzionale, quindi? A mio parere si viene meno agli stessi principi costituzionali che rendono legittimo l’operato del legislatore e dei nostri governanti. L’ergastolo, se si riflette bene, pone sullo stesso piano del carnefice la società che lo accetta come conseguenza normale per chi viola le norme e commette crimini efferati. In realtà questo tipo di pena, che rappresenta una vendetta sociale e di Stato, non può fare altro che mantenere aperte all’infinito le ferite e le crepe che vengono a crearsi tra il reo e le vittime, nonché con tutta la collettività.
L’Onorevole Aldo Moro, un tempo disse: “Ci si può domandare se, in termini di crudeltà non sia più crudele una pena che conserva in vita privando questa vita di tanta parte del suo contenuto, che non una pena che tronca, sia pure crudelmente, disumanamente, la vita del soggetto e lo libera, perlomeno con sacrificio della vita di quella sofferenza quotidiana, di quella mancanza di rassegnazione e di quella rassegnazione che è uguale ad abbruttimento, che è la caratteristica della pena perpetua”.
Dopo questa citazione mi accorgo che è difficile chiudere con poche righe un articolo che tratta di un tema così forte e complesso. Quindi vorrei approfittarne solo per salutare Gina, colei che in questo momento continua a darmi la forza per andare avanti. Sarei lieto se attraverso le pagine di questo giornale arrivassero opinioni, commenti, al fine di aprire un confronto e uno scambio costruttivo in tema di pena all’ergastolo.
Angelo Sechi